Affinché si possano abitare i profondi orizzonti sgorganti dal significato della cultura, è necessario riempire di significato la cultura stessa. Il che vuol dire sostenere e vivificare nella prassi il significato della cultura. Ma, a fronte di un così insistente utilizzo del termine cultura, se e in che misura gli orizzonti culturali – tanto sul piano individuale quanto a livello sociale ed istituzionale – sono debitamente significati?
Di cultura, oggi, si sente parlare in ogni dove. Dai rotocalchi ai salotti televisivi, dalle aule universitarie agli ambienti politici. Con annessa, e negli intenti nobile, apologia della stessa soprattutto in occasione di puntuali ed ampollosi momenti inaugurali. Come in ogni processo di impiego ipertrofico di un concetto, però, ci si muove sul filo del rischio inflativo. Soprattutto se l’assetto potenziale di ciò che si proferisce e sostiene con fermezza, non sempre sfocia in un conseguente e dovuto movimento in atto. A maggior ragione se non sempre è sostenuto e vivificato il significato della cultura.
In casi simili, a venir meno, non è solo la credibilità di quei soggetti che di cultura si ammantano, per poi liberarsene al primo angolo dove cerimonia e palcoscenici lasciano il posto a silenzio e lavoro. Ma è la tanto citata cultura stessa ad essere dilaniata e dissipata alle radici, se il culmine del lavoro culturale si raggiunge nella pienezza dell’incontro tra teoria e prassi.
Lo stallo che si promana da un simile, diffuso, stato di cose – come storicamente accade da secoli – è, in una qualche misura, problematizzato da molteplici parti. A più o meno profondi livelli di rigorosità e consapevolezza. Ma ciò su cui si dovrebbe maggiormente sostare è la soglia di disponibilità, sul piano strutturale, a prendersi carico di tutto ciò.
AGIRE NEL SEGNO DELLA PERFETTIBILITÀ
In altre parole, tanto da singoli individui quanto da membri della comunità umana, se e quanto si è disposti a pensare ed agire nel segno della perfettibilità? Concetto, quest’ultimo, che differisce dalla tanto agognata quanto poco umanamente esperibile nozione di perfezione. La perfettibilità consiste nella disponibilità al perfezionarsi. Si tratta di un esercizio spirituale e vitale dal quale dipende il nostro modo di stare al mondo. E che si fa giuntura tra progettazione concettuale ed impronta tangibile, in un gioco in cui si co-appartengono dimensione individuale ed orizzonte comunitario.
Non mancano, di certo, agenti e scenari il cui agire è parametrato sulla perfettibilità. E per questo capaci di conferire significato agli oggetti posti in essere – tra cui la cultura. In altri casi, non meno diffusi, regna invece, quasi del tutto indisturbato, il vaniloquio. I buoni propositi restano tali, le scintille di propositività sfumano in una pallida brace. Le tracce di arricchimento si confondono in confusi sentieri che diventano difficili da percorrere e facili da dimenticare. Quand’anche lo spirito di fondo soggiorni nell’alveo della buona fede. Allora l’incedere nel mondo si adagia in una languida, smorta, inerziale resa, che non tarda a sfociare in una passiva indifferenza. Ci si ritrova, così, nell’anticamera dell’oblio.
UN CASO ICASTICO
Caso icastico di questo status quo, è rappresentato da quanto si apprende da una lettera aperta pubblicata sul quotidiano La Sicilia in data 03/04/2022. La gratuita volontà di un privato cittadino va gradualmente spegnendosi tra assordanti silenzi amministrativi ed aride congestioni burocratiche. L’autore della lettera aperta, nonché ideatore dell’iniziativa in questione, Giuseppe Di Fini, racconta:
Nel tentativo di organizzare (non richiedendo alcun compenso economico personale, in assoluta gratuità) diversi incontri pubblici in memoria di Battiato, ho incaricato chi mi è collaboratore e amico di contattare varie amministrazioni comunali siciliane; avrei coinvolto personalità di indiscutibile peso, di innegabile statura. Il risultato ottenuto, ad oggi, è pari a zero. La ciliegia è stata posta sulla torta quando il Comune di Palermo, avendomi ricontattato in seguito alle proposte avanzate, mi ha riferito che certi provvedimenti della Corte dei conti e della Ragioneria generale hanno impedito di ricorrere a risorse per finanziare questi eventi, per ragioni di bilancio.
In questa cornice, l’unica via percorribile affinché iniziative di tale natura possano prendere forma, risiederebbe nel farsi carico, da parte di un privato, della totalità degli oneri finanziari necessari alla realizzazione di quanto progettato. E, si noti bene, si tratta di eventi di interesse pubblico. Che dalla comunità sorgono ed alla comunità ritornano. Ora, ripercorrendo le parole dello scrittore e filosofo GiuseppeDi Fini:
La Corte dei conti avrà certamente fatto bene i conti; la Ragioneria generale avrà di certo ben ragionato in proposito. Il controllo finanziario deve essere esercitato e guai se così non fosse.
Ma è altrettanto indubbio che – a livello della gestione della cosa pubblica – urge la necessità di tracciare sentieri alternativi. Strutturare, con improrogabile solerzia, altri orizzonti di possibilità. Come continua lo stesso Di Fini:
In tali casi, qualora non potesse essere il Comune a far fronte, dovrebbero intervenire la Provincia, la Regione, lo Stato.
VIVIFICARE IL SIGNIFICATO DELLA CULTURA
Non ci si può arenare nelle stagnanti sabbie mobili della rassegnazione. Tanto dalla prospettiva di privati cittadini quanto a livello sociale. Fermo restando che i due piani siano indissolubilmente legati. Non è praticabile perseverare in narrazioni di rinuncia, di resa senza appello, di inerziale neutralità. Ne va del nostro modo di stare al mondo e della possibilità di restituirci vicendevolmente qualcosa nella nebulosa della comunicazione, delle interazioni, delle relazioni.
E si ritorna, così, al nucleo centrale della perfettibilità. La disposizione al perfezionamento che all’alveo culturale dovrebbe garantire quella tangibilità, quella concretezza, quel movimento tali da renderlo cassa di risonanza, orizzonte di arricchimento, canale di espansione teoretico e vitale.
Sennò sarebbe più elegante ed onesto intellettualmente non parlare proprio di cultura con tanta e vana insistenza. Con quel fare retorico e reboante che va dissipandosi gradualmente nel tonfo sordo di puntuali, episodici, isolati, strumentali tremiti da situazione.
Occorre andare oltre l’inappellabile resa ed opporre resistenza all’inconsistente corso della stasi, del procedere per inerzia. Ma è necessario farlo in concerto. In una spinta corale che travalichi i perimetri delle singole responsabilità e di poco onorevoli meccanismi di scarica barile che, di cerchio concentrico in cerchio concentrico, approdano ad una dimensione ultima quasi impalpabile, dove annacquate si fanno le responsabilità e le carenze. E sfumati, quasi evanescenti, l’input e il margine d’azione.
IL RITMO DELLA CULTURA
Non vi sono, in questa cornice, né polemica né prescrittività – che poco appartengono a chi scrive. Ma solo un’autentica ed amorevole esigenza di movimento da opporre, in una qualche misura, ad una paralisi che regnerebbe, in caso contrario, quasi del tutto incontrastata. A guardarsi intorno non mancano capitali di valore, idee, volontà.
Ma è necessario viverle e vivificarle, in questo come in altri casi. Ed occorre agire sul piano strutturale, sistemico, sistematico, in concerto. Allora, più che un appello, tracima dai bordi di queste righe un invito. L’invito a prendersi carico della complessità del reale, accogliendone la costitutiva dimensione negativa che stanca, sfianca, tormenta. Ma che è pur necessario affrontare nel suo ineludibile imporsi. E della quale qualcosa si dovrà pur fare.
Affinché la medietà di un non di rado svogliato incedere nel mondo diventi ritmo. Che, pulsante, palpitante, fecondo pervada strade ed uffici, irrori coscienze individuali ed esistenze collettive. Nel nome proteiforme, significato e significante, rinnovato e rinnovante della cultura.
Mattia Spanò