I recenti rivolgimenti politici, non solo in Italia ma anche all’estero, e le tensioni sociali conseguenti l’emergenza sanitaria presentano al pensiero sfide complesse. Le restrizioni e le ipoteche sul presente e sul futuro ci spingono a tornare a interrogarci sul significato di termini come “libertà” e “democrazia”. Naturalmente, allorché obbedire costa, torna prepotentemente alla ribalta il concetto di “disobbedienza”, non di rado accompagnato dall’aggettivo “civile”. In che cosa consiste, però, e qual è il senso della disobbedienza civile? In un saggio del 1970, la filosofa Hannah Arendt offriva una risposta che ci riserva, insieme a qualche sorpresa, spunti di riflessione ancora attualissimi.
Per comprendere il senso della disobbedienza civile secondo Hannah Arendt, dobbiamo partire da una sua constatazione tanto elementare quanto (per le sue implicazioni) fondamentale:
nella nascita di ogni individuo è insita una forma di consenso. Una sorta di accettazione delle regole che disciplinano il grande gioco dell’esistenza nel particolare gruppo a cui gli è capitato di appartenere. Noi tutti viviamo e sopravviviamo secondo una sorta di tacito consenso […]. Il dissenso implica consenso ed è il tratto caratteristico di un regime di libertà. Chi sa di poter dissentire sa anche che, in qualche modo, quando non dissente esprime un tacito assenso.
Alle società democratiche nelle quali viviamo siamo legati come cittadini, fin dalla nascita, dal consenso. Ciò significa che in esso risiede la possibilità del dissenso e, con questa, le nostre libertà civili. Ma in cosa consiste davvero questo consenso? Per la filosofa,
la sua sostanza morale è simile a quella di tutti gli accordi e contratti: consiste nell’obbligo di rispettarli. Un obbligo connaturato a tutte le promesse. Ogni organizzazione umana, sociale o politica, si fonda in fin dei conti sulla capacità dell’essere umano di fare promesse e mantenerle. L’unico dovere strettamente morale del cittadino deriva da questa duplice volontà di dare e mantenere un impegno affidabile sulla propria condotta futura. Questa è la condizione prepolitica per tutte le altre virtù strettamente politiche.
Esplicitamente o implicitamente, i cittadini s’impegnano al rispetto delle leggi e delle istituzioni del proprio Paese. Anche i governi, però, hanno degli impegni da mantenere nei confronti dei cittadini, preservandone e promuovendone il godimento dei pieni diritti. Qualora i governi vengano meno ai propri impegni, i cittadini hanno la facoltà e il dovere di manifestare il proprio dissenso. Come? Attraverso una trasgressione che dà voce e forma alla protesta.
È questo il senso della disobbedienza civile. Come scrive Arendt,
La disobbedienza civile insorge quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più. Che non viene più dato ascolto né seguito alle loro rimostranze. O che, al contrario, il governo sta cambiando ed è ormai avviato verso una condotta dubbia in termini di costituzionalità e legalità.
Attenzione, però: sarebbe un errore credere che la disobbedienza civile sia un’anarchica e casuale infrazione della legge. Il disobbediente non è come un criminale comune. Quest’ultimo, infatti, sfida l’autorità e si oppone a un aspetto dell’ordine costituito di nascosto e per il proprio tornaconto. Chi pratica la disobbedienza civile, invece, opera manifestamente e non per essere l’eccezione alla regola, bensì nell’interesse di un gruppo del quale condivide valori e obiettivi. A questo proposito, si noti quanto osserva la filosofa:
sarebbe un errore pensare che siano individui che si battono, in nome della propria coscienza, contro le leggi e i costumi di una comunità. Convinzione, questa, condivisa sia dai difensori sia dai detrattori della disobbedienza civile. In realtà, abbiamo a che fare con minoranze organizzate che si battono contro maggioranze che si presumono inerti fino a farne mutare notevolmente l’opinione.
Non si tratta, in altri termini, della lotta titanica di singoli individui che impavidi affrontano la miopia della maggioranza. Non si tratta di Socrate, né di Henry David Thoreau: due modelli di disobbedienza civile onnipresenti che, mette in guardia Arendt, urge mettere in discussione.
Siamo proprio sicuri che il filosofo ateniese e quello di Concord costituiscano modelli adeguati per la disobbedienza civile?
Socrate e Thoreau, osserva la studiosa, sono figure graniticamente scolpite nella mente di quasi tutti coloro praticano – o dicono di praticare – la disobbedienza civile. La lezione attribuita a questi due grandi maestri si riassumerebbe, grossomodo, con l’assoluta priorità accordata alla coscienza individuale. Infatti, spiega Arendt,
chi è stato allevato nella tradizione occidentale trova naturale considerare l’accordo raggiunto con gli altri secondario rispetto alla decisione solitaria maturata in coscienza. Questo perché si è certi che a legare gli uni agli altri possa essere solo una convinzione già matura, che accomuna.
La disobbedienza civile tuttavia è, nel momento storico in cui Arendt scrive, un atto evidentemente politico, oltre che morale. Socrate, però , come emerge dal Critone platonico, non era un trasgressore delle leggi, né un ribelle. La sua scelta di morire pur di non mancare alla propria parola è insieme una forma di rispetto di sé e dell’ordinamento dello Stato. Del resto, egli era convinto che la sua condanna discendesse da una cattiva applicazione di leggi giuste. Quanto a Thoreau, non si tratta di un buon candidato a modello di virtù civile perché nel suo pensiero
la coscienza è apolitica. Non s’interessa al mondo in cui il male viene commesso né alle conseguenze che il male avrà sul futuro del mondo.
Thoreau, in altri termini, è il prototipo dell’uomo virtuoso che desidera essere lasciato in pace il più possibile dallo Stato. Come, del resto, risulta evidente dalla sua celebre affermazione (contenuta in un saggio del 1849 intitolato a sua volta La disobbedienza civile)
Il governo migliore è quello che governa meno.
Ora, il problema, secondo Arendt, con i titani della saggezza è questo. La loro disobbedienza, se davvero di disobbedienza si tratta, è quella di singoli giusti che agiscono secondo le massime soggettive di una coscienza educata.
Le coscienze educate, però, sono purtroppo merce rara. Per dirlo con Arendt,
Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di pensare e di guardarsi dentro. Ma sappiamo altrettanto bene che non sono in molti a svolgere questa pratica così poco remunerativa.
Hannah Arendt scriveva nel 1970. Aveva assistito alla contestazione, agli scontri, alla repressione operata – a parole e con i fatti – dal governo americano. Probabilmente aveva seguito il processo agli “otto di Chicago”. Forse aveva anche visto l’attivista afroamericano Bobby Seale percosso, legato e imbavagliato nell’aula del tribunale per aver invocato il diritto a un equo processo. Ragionare sulla disobbedienza civile per la studiosa significava argomentare come questa non implicasse affatto, come molti temevano, la “morte della legge”. Ma qual è oggi per noi il senso della disobbedienza civile?
«Quando la tirannia diventa legge, la resistenza diventa un dovere». Questa frase appariva, scritta a pennarello, sopra una mascherina in un post di alcuni mesi fa largamente circolato tra i no mask di tutta Europa. Vedendola, ricordo di essermi chiesta se l’autore/autrice avesse deliberatamente parafrasato una famosa frase di Bertolt Brecht sull’ingiustizia. Curiosamente, il nome del drammaturgo tedesco si lega a un’altra frase che potrebbe interessare i no mask:
chi non conosce la verità è uno sciocco ma chi, conoscendola, la chiama “bugia” è un delinquente.
Forse non mi spingerei a definire “delinquente” un/una negazionista del Covid. Tuttavia, non credo sia intellettualmente onesto restare in silenzio quando certi personaggi invitano alla “disobbedienza civile”. Perché disobbedire, come gesto eticamente e politicamente consapevole, è un atto che ha a che fare con l’impegno alla costruzione di un mondo migliore. È un gesto collettivo di cura del presente e del futuro, frutto di una scelta ponderata e di un’accurata informazione. Le teorie (più o meno deliranti) dei no mask, invece, servono a sostenere piuttosto l’arbitrio individuale. Il poter fare senza impedimenti ciò che si desidera o si ha bisogno di fare. Se la libertà è in debito d’ossigeno, in questo contesto, non è a causa delle mascherine ma della manipolazione delle parole che rende difficile pensarla. Possiamo volere che la disobbedienza civile sia davvero uno strumento per esigere un cambiamento radicale o tutelare la nostra libertà, ma di fatto dovremo meritarcelo. Anche e soprattutto impedendo che essa sia svuotata, nelle parole e nella prassi, del suo significato.
Valeria Meazza