Il colosso svedese H&M inizia a vendere capi usati nello store di punta di Regent Street, nel cuore di Londra. Questa scelta si inserisce in una politica più ampia che la catena ha adottato già da alcuni anni per limitare il proprio impatto ambientale. Scelta orientata a favore delle nuove politiche UE che rispondono ad un bisogno crescente di chiarezza e trasparenza da parte di consumatori sempre più consapevoli e attenti.
Il second-hand arriva da H&M, un passo verso una nuova concezione di consumo in un clima in cui la lotta al cambiamento climatico è finalmente divenuto oggetto di dibattito politico.
Il second-hand sbarca nello store londinese di H&M, seguendo quello di Barcellona. Il marchio svedese sembra essere consapevole del proprio impatto negativo sull’ambiente, dovuto ad anni di produzione di capi fast-fashion. Possiamo senza dubbio pensare che fra i capi nelle immagini delle discariche a cielo aperto diffuse in questi giorni (quelle del deserto di Atacama in Cile, ad esempio) vi siano capi provenienti da H&M, così come da tutte le altre aziende Fast Fashion. Il second-hand arriva da H&M, e ciò non riguarda soltanto il cambiamento nelle scelte da parte dei consumatori, ultime generazioni in primis, ma ciò che lo ha scaturito. I dati sempre più allarmanti sulle condizioni del nostro pianeta non possono più essere minimizzati. La lotta al cambiamento climatico deve essere una priorità.
Il piano dell’UE
«I consumatori da soli non possono riformare il settore tessile globale attraverso le loro abitudini di acquisto […] L’UE deve obbligare legalmente i produttori e le grandi aziende di moda a operare in modo più sostenibile»
-Delara Burkhardt, europarlamentare
L’Unione Europea ha recentemente aggiornato l’articolo sull’impatto ambientale dell’industria tessile pubblicato nel 2020 sulla piattaforma del Parlamento Europeo. Il bilancio fornito dal report UE è drammatico. “Si calcola che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme“, leggiamo nell’articolo.
Per contrastare questo fenomeno l’Ue propone delle misure che, innanzitutto, mirano alla produzione di capi più sostenibili, che durino nel tempo. Una delle peculiarità dei capi fast-fashion è infatti quella di essere prodotti di bassissima qualità. Si parla di moda usa-e-getta, capi che si logorano in fretta e che diventano presto rifiuti. Tra le proposte UE anche il passaporto digitale dei prodotti (DPP). Quest’ultimo dovrà costituire un identikit dei prodotti, (non soltanto tessili) che fornisca informazioni sulla riciclabilità e sulla supply-chain, l’insieme di tutti i passaggi che hanno portato alla realizzazione di quei determinati prodotti. Il DPP sarebbe dovuto divenire realtà già nel 2022, ma si stima non verrà introdotto prima del 2026/27.
Nonostante il rinnovato interesse dimostrato dall’UE, non mancano le critiche e gli appunti al lavoro svolto dalla Commissione Europea. Il direttore di Eurotex Dirk Vantyghem accusa il Parlamento Europeo di non aver valutato l’impatto negativo sulla competitività delle aziende che il piano potrebbe avere. Inoltre, ritiene l’approccio alla materia riduttivo, manchevole delle dovute distinzioni, ad esempio, “tra prodotti di alta qualità e durevoli e articoli di bassa qualità”. Quindi, nonostante sia ormai stato riconosciuto l’impatto estremamente negativo dell’industria del tessile parte dell’UE, il percorso da seguire è ancora da definire.
Il second-hand arriva da H&M, siamo sulla strada giusta?
Augurandoci che non si tratti dell’ennesimo caso di GreenWashing, riteniamo che la proposta di capi second-hand da parte delle aziende possa aiutare a favorire una concezione alternativa di consumo. Sentiamo costantemente la necessità di avere qualcosa di nuovo, bombardati da trend da seguire su tiktok, da unboxing di pacchi Shein e Amazon. Non ci prendiamo cura delle nostre cose, preferiamo buttarle piuttosto che ripararle, ricucirle, scambiarle. L’era del consumismo sfrenato ha prodotto conseguenze che non è più possibile ignorare, ne sono la prova le immagini di cui sopra, pile infinite di vestiti visibili persino dallo spazio.
E’ vero, le pratiche di economia circolare non bastano da sole. Vi deve essere sinergia tra le istituzioni e le aziende, sensibilizzazione trasversale. Esperti con dati alla mano che ci dicano che non possiamo più comportarci come se ognuno di noi non avesse un impatto sulla realtà circostante. Che il second-hand nei negozi non sia l’eccezione, ma diventi la regola. Che venga normalizzato il noleggio, lo scambio di abiti, accessori, oggetti. Una normativa che regoli la produzione è necessaria, ma se cambiano le nostre abitudini, il nostro modo di pensare il consumo, se iniziamo ad essere consapevoli di non aver bisogno di tutto quello che ci offrono, la domanda non potrà che calare. Le nostre scelte quotidiane fanno la differenza, soprattutto quando le condividiamo.
Se venisse concessa e incentivata la coltivazione della canapa, il problema dell’inquinamento atmosferico e lo spreco d’acqua si ridurrebbe moltissimo. Non solo: con le stesse piante si potrebbero creare prodotti per la salute e la cosmesi.