Realtà e finzione si toccano e giocano per tutto il film: l’attrice iraniana Banhaz Jafari ed il regista Jafar Panahi vanno verso le montagne turbati da un video arrivato sul cellulare di lei.
La giovane Marziyeh, ragazza di provincia stretta nella morsa del suo opprimente villaggio avrebbe filmato il suo suicidio per impiccagione. La cosa puzza anche perché lei dice di aver contattato l’attrice molte volte ma di non aver mai avuto risposta mentre la sconvolta Jafari giura di non aver mai ricevuto niente.
Il mondo che si mostra ai loro occhi e alle loro sensibilità cittadine è quello di un microcosmo dominato dalla tradizione, dove la tensione per l’arte ed il cinema è totalmente disprezzata o percepita come dannosa, da nascondere
Panahi per il film ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al festival di Cannes di quest’anno: un cinema senza fronzoli ed il minimo della costruzione sono state le sue carte vincenti.
Le situazioni sono costruite con una grande fluidità che regala passaggi degni di nota in episodi perfettamente congiunti. La scena con la Jafari che ascolta il racconto della tradizione del prepuzio da seppellire in un dato luogo come augurio per il bambino di un vecchio del paese è emblematica.
Lo scontro è tra due diverse sensibilità, tra ragione e tradizione, tra logica e puro mantra culturale. Le donne soprattutto sono magneti di rivelazioni e situazioni: Panahi ragiona sul loro stato nell’Iran sciita che tarpa loro le ali non già con la coercizione statale ma con l’automatismo del popolo stesso.
Con lo sguardo diritto verso l’Occidente moderno, il regista si dimostra diretto quanto lieve, sintetico quanto denso, lineare quanto complesso, in un gioco di specchi semantico degno del rococò.
Dal 29 novembre al cinema, il film è assolutamente consigliato per tutti gli appassionati e i novizi del cinema iraniano.
Antonio Canzoniere