Il ritorno dai campi di concentramento: un nuovo codice morale

Il ritorno dai campi di concentramento

 

Sappiamo tutti che il ritorno dai campi di concentramento per i deportati non è stato facile da un punto di vista logistico. Molte sono le storie raccontate dagli ex prigionieri sui loro lunghi viaggi di ritorno a casa. Uno di questi è descritto benissimo ne “La Tregua” di Primo Levi, da cui è stato tratto anche l’omonimo film con John Turturro, nel 1997.

Il ritorno dai campi di concentramento, però, non ha comportato solo questo, ma ha rappresentato anche un cambiamento di codice morale:

dal codice di sopravvivenza tipico del campo di concentramento,

al vecchio codice morale della società civile 

Nel raccontarvi questo “ritorno alla coscienza” vi parlerò dell’attenta analisi fatta da Primo Levi nel suo saggio “I sommersi e i salvati” (1986), un libro utile, oltre che interessante. Un libro che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero leggere, per comprendere fino in fondo quali semplicissime dinamiche possano portare a commettere crimini tanto disastrosi e disumani, come quelli che sono stati perpetrati nei campi di sterminio nazisti.

Solo più un numero, non persone 

Come spero sia noto a tutti, il processo di perdita dell’identità iniziava non appena si giungeva al campo e prevedeva: la rasatura dei capelli (ancora più umiliante per le donne), indossare divise uguali per tutti (a volte di taglie diverse dalla propria, perché appartenute già ad un altro detenuto), l’applicazione di un triangolo identificativo (la stella di David per i prigionieri Ebrei o il triangolo rosa per gli omosessuali, per esempio) e la marchiatura di un numero di identificazione sul braccio, con il quale i prigionieri venivano privati del loro nome e cognome,

 come animali destinati alla macellazione. 

Il processo di perdita d’identità non era circoscritto al corpo, ma riguardava anche la sfera morale: all’interno del campo di concentramento il codice morale tipico della società civile cessava di esistere e veniva sostituito dal codice di sopravvivenza tipico del campo di concentramento.

Il ritorno al codice morale della società civile, però, scatena negli ex deportati il senso di colpa e di vergogna. 

Il senso di colpa e di vergogna che coincideva con la riacquistata libertà era un sentimento composito

Si soffriva per la riconquistata consapevolezza di essere stati menomati 

Levi ci racconta come la vita dei prigionieri fosse stata ridotta, come per le bestie, al momento presente. Non c’era più il ricordo della propria patria, dei propri affetti. Tutto era ristretto e relegato ai bisogni primari e più impellenti.

Levi scrive:

Le nostre giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio per riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la denutrizione soffrendone assai meno, perché il nostro metro morale era mutato.

Inoltre, Levi ci racconta, che tutti, in un modo o nell’altro, avevano “rubato”. Si rubava dalle cucine, dalla fabbrica, al campo. Alcuni si erano addirittura abbassati a rubare il pane al proprio compagno.

Durante la prigionia, però, il senso di colpa per queste azioni non esisteva, poiché la sopravvivenza e la necessità lo rendevano legittimo, ma con il ritorno alle proprie vite, alla normalità e all’umanità, con il ritorno alla coscienza, nasceva il senso di colpa e di vergogna.

Credo che proprio a questo volgersi indietro a guardare siano dovuti i molti casi di suicidio dopo la liberazione. Tutti gli storici del Lager, concordano nell’osservare che i casi di suicidio durante la prigionia erano rari. Del fatto sono state tentate diverse spiegazioni; da parte mia ne propongo tre:

Primo: il suicidio è dell’uomo, non dell’animale

Secondo: c’era altro a cui pensare

Terzo: nella maggior parte dei casi il suicidio nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è venuta ad attenuare. Non occorreva punirsi col suicidio per una colpa che già si stava espiando con la sofferenza di tutti i giorni.

La consapevolezza di non aver fatto abbastanza per opporsi alla prigionia 

Questo senso di colpa è legato alla fatidica domanda che molti ex deportati si sentono rivolgere, ovvero: “Perché non siete scappati? Perché non vi siete ribellati?” 

Levi ci spiega che, nonostante non sia del tutto vero che episodi di ribellione e di resistenza non siano realmente esistiti, come le rivolte di Treblinka, di Sobibòr, di Birkenau, esse, in ogni caso, non avrebbero mai potuto portare alla “vittoria”, intesa come “liberazione del campo” , questo perché si trattava di insorti praticamente disarmati. Inoltre le condizioni di salute e di degrado in cui vivevano i prigionieri avrebbero reso impossibile, ad uno qualsiasi di loro, intraprendere una qualsiasi lotta contro i propri aguzzini.

Pensando a questo, non ci sarebbe alcun motivo, per un ex deportato, di provare vergogna o senso di colpa per non aver avuto la prestanza fisica per dare il via ad una rivolta, eppure il senso di colpa del sopravvissuto nasce dal

giudizio che il reduce vede, o crede di vedere, negli occhi di coloro che ascoltano i suoi racconti, e giudicano con il facile senno del poi

Tutti si sentono colpevoli di “omissione di soccorso” 

Nel campo, la presenza costante di un compagno vicino, più giovane o più vecchio, più sprovveduto o più debole che ossessiona con le proprie richieste d’aiuto era una costante.

Molti ex deportati ricordano di aver risposto a tali richieste d’aiuto con fastidio o con impazienza, spesso perché la persona stessa a cui venivano rivolte tali richieste, era essa stessa stremata e bisognosa di aiuto.

Anche in questo caso, però, il senso di colpa non affligge durante la prigionia, ma ritorna quando si ritorna al vecchio codice morale che impone di essere solidale con chi ci chiede aiuto e ha bisogno di noi.

Ricordo con un certo sollievo di avere una volta cercato di ridare coraggio ad un diciottenne italiano appena arrivato … ma ricordo anche, con disagio, di avere molto più spesso scosso le spalle con impazienza davanti ad altre richieste, e questo da quando ero in campo da quasi un anno e avevo assimilato la regola principale del luogo, che prescriveva di badare prima di tutto a sé stessi.

Vergogna perché sei vivo al posto di un altro 

Questo senso di vergogna, invece, scaturisce da due diversi pensieri: l’uno è quello di essere stato risparmiato dalla Provvidenza a spese di un’altra persona per qualche strano disegno divino, l’altro è dato dalla consapevolezza che a sopravvivere nel campo, di solito, non erano i migliori d’animo, quelli più generosi, i più sensibili, ma, al contrario, a sopravvivere erano i peggiori: gli egoisti, i violenti, gli insensibili, le spie.

Consapevoli di ciò, gli ex deportati vivono con la vergogna di essere salvi a spese di qualcun altro, indipendentemente dal fatto che sia stato il Fato a volerlo o il proprio comportamento, a determinare questa condizione.

Molti sopravvissuti, come Primo Levi, hanno trovato un conforto al proprio tormento,

nel portare testimonianza di quello che è accaduto

L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo. Non siamo noi i superstiti, i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato per raccontare, o è tornato muto.

Dopo aver letto tutto questo, lascio a voi la risposta: è possibile tornare alla “coscienza” dopo essere stati ridotti a “bestie”?

Primo Levi non ce l’ha fatta. E’ tornato per darci testimonianza della sua esperienza, nel modo migliore che potesse fare, e poi si è tolto la vita, nell’aprile del 1987.

Il libro da cui ho tratto questo mio articolo, “I sommersi e i salvati” è stato pubblicato nell’aprile del 1986.

L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni.

Per i giovani degli anni ’50 e ’60 erano cose dei loro padri: se ne parlava in famiglia, i ricordi conservavano ancora la freschezza delle cose viste.

Per i giovani di questi anni ’80, sono cose dei loro nonni: lontane, sfumate, “storiche”.

Parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme un rischio: il rischio di non essere ascoltati.

Dobbiamo essere ascoltati: siamo stati testimoni di un evento inaspettato. E’ avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; è avvenuto che un intero popolo civile, seguisse un istrione;

Adolf Hitler è stato osannato fino alla catastrofe.

Può accadere, e dappertutto. La violenza è sotto i nostri occhi: attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e infetti il mondo.

(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi editore, 2003) 

Questo è quello che Levi scriveva delle generazioni degli anni ’80. Riscontrava questa difficoltà di farsi ascoltare, capire e conoscere, già più di trent’anni fa. Ed oggi? Qual è la situazione?

E’ vero quello che gli ex deportati temevano? Stiamo dimenticando quello che è successo? Lo sterminio di milioni di ebrei, omosessuali, zingari, dissidenti politici, uomini, donne, anziani e bambini è così lontano da noi, da averlo dimenticato? Siamo destinati a riviverlo?

E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo:

questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.

Milena Capriuolo

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