Il redlining negli Stati Uniti: una forma di discriminazione di cui si paga ancora il prezzo

redlining negli Stati Uniti

Quasi sessant’anni fa, la segregazione razziale venne abrogata negli Stati Uniti. Tuttavia, ancora oggi la comunità nera americana deve pagare il prezzo di decenni di politiche discriminatorie. Una delle pratiche discriminatorie che fanno maggiormente sentire le loro conseguenze è quella del redlining che per più di trent’anni ha negato alle persone nere l’accesso a prestiti e servizi di investimento nel mercato immobiliare. Disparità nella ricchezza, discriminazioni nel settore immobiliare, peggiori condizioni di salute… questi sono solo alcuni degli strascichi del redlining negli Stati Uniti.

Breve storia del redlining: in cosa consiste?

Il termine viene coniato negli anni Sessanta dal sociologo americano John McKnight per contrassegnare un fenomeno iniziato già negli anni Trenta. In seguito al crollo della Borsa di Wall Street del 1929, gli americani erano in ginocchio. Per far fronte ad una situazione economia catastrofica, il neoeletto presidente Franklin D. Roosevelt fa partire nel 1933 il celebre programma economico chiamato “New Deal“. Fra i settori economici che questo programma voleva riavviare vi era quello immobiliare (particolarmente caro agli Stati Uniti come ben sappiamo), a tale scopo venne creata la Home Owners’ Loan Corporation” (HOLC).

È qui che il redlining entra in gioco: la corporazione elaborò delle mappe delle città americane in cui i quartieri venivano classificati in base al loro livello di “rischio di investimento” (dove con “investimento” si intende la possibilità di concedere mutui e prestiti). L’HOLC individua quattro “tipi” di aree:

  1. Le aree nuove dove risiedevano categorie di persone a prestiti sicuri (contrassegnate dal colore verde).
  2. Le aree definite “ancora desiderabili” (caratterizzate dal colore blu).
  3. Le aree “in declino” (delineate dal giallo).
  4. Le aree che rappresentavano degli investimenti rischiosi (segnate in rosso).

Quest’ultime, non a caso, costituivano zone della città dove notoriamente risiedevano afroamericani. L’etnia non era l’unico fattore preso in considerazione come indicatore del rischio di credito ma di fatto lo condizionava in maniera quasi esclusiva. Le mappe non vennero rese “pubbliche” dal governo, erano messe a disposizione di banche e compagnie assicurative affinché selezionassero con attenzione le aree (e le persone) nelle quali investire. Gli effetti scaturiti da queste linee colorate sono però immediatamente fin troppo visibili.

L’impatto del redlining negli Stati Uniti sulla comunità nera americana

Per trent’anni, fino al Civil Rights Act del 1968, migliaia di americani sono impossibilitati ad usufruire di importanti servizi a causa del colore della loro pelle. Le banche negarono loro prestiti e servizi di investimento, rendendo loro impossibile spostarsi da aree che nel tempo divennero sempre più degradate. Infatti, la creazione di queste mappe etichetta i quartieri in cui risiedevano gli afroamericani come “pericolosi” il che si tradusse velocemente in una minore concentrazione di scuole ed opportunità di lavoro. Più passavano gli anni, più lo scarto fra “quartieri bianchi” e “quartieri neri” si è accentuato.

Una vera e propria “segregazione abitativa” di cui il governo federale americano è il diretto responsabile. Ci sono voluti trentacinque lunghi anni perché il redlining negli Stati Uniti diventasse illegale, sulla spinta del movimento per i diritti civili del dopoguerra. Una nuova legge può effettivamente eradicare i “virus” scaturiti dal redlining che incubano da più di tre decenni? I fatti ci dicono di no: le svariate forme di discriminazione sistematica a cui gli afroamericani devono oggi far fronte sono il risultato di tanti tasselli che nel corso dei decenni hanno creato il grande “mosaico razzista” americano.

L’eredità del redlining negli Stati Uniti

Il Fair Housing Act (parte del Civil Rights Act) ha messo formalmente fine alla discriminazione dei neri americani nel settore immobiliare. Tuttavia, sono molteplici e diversificati gli effetti dannosi del redlining che è possibile riscontrare ancora oggi.

  1. Un gap della ricchezza basato sull’etnia: dato che nei quartieri “rossi” vi furono sempre meno opportunità di lavoro, di istruzione e di investimenti, i redditi in queste zone si abbassarono sempre di più. Si creò quindi un’importante disparità di ricchezza fra bianchi e neri nelle città.
  2. Discriminazioni nel settore immobiliare: le ineguaglianze nel settore non toccano solo gli acquirenti ma anche gli agenti immobiliari. Solo il 6% di questi sono di colore e guadagnano fino a tre volte meno rispetto ai loro colleghi bianchi.
  3. Peggiori condizioni di salute e ambientali: l’altissima densità di popolazione e di industrie delle aree rosse ha abbassato l’aspettativa di vita di quasi quattro anni (come ci dice uno studio del 2020 della National Community Reinvestment Coalition). Inoltre, secondo uno studio dell’università di Chapel Hill nel North Carolina, in questi quartieri il surriscaldamento urbano si sente maggiormente. Le minoranze etniche sarebbero qui esposte a 3,12°C di riscaldamento in più data, appunto, la sovrappopolazione dei quartieri e la minore presenza di spazi verdi.

Un razzismo istituzionalizzato

La pratica del redlining negli Stati Uniti si basava su pregiudizi ed ha contribuito a crearne di altri, come l’idea che vi sia una correlazione diretta fra colore della pelle e disponibilità economica. Tuttavia, come abbiamo visto, il gap della ricchezza che il redlining ha creato ha in qualche modo formalizzato e dato concretezza a questo falso mito. Oggi una banca non può decidere di non erogare un prestito sulla base dell’etnia, ma può farlo sulla base del reddito che, come abbiamo visto, continua ad essere mediamente inferiore nelle vecchie zone rosse.

Negli anni Trenta, il redlining negli Stati Uniti ha istituzionalizzato una situazione di disparità e discriminazione già abbondantemente radicata nel paese. Questo fenomeno è utile per comprendere come mai il razzismo sia ancora così diffuso negli States, come lo dimostrano i frequentissimi casi di police brutality nei confronti di uomini afroamericani. Com’è possibile sopprimere le disuguaglianze da un paese che le ha promosse ed incoraggiate per generazioni?  

La comunità afroamericana subisce ancora ingiustamente i dannosi esiti del redlining negli Stati Uniti. Se davvero si trattasse di qualcosa di superato, non dovrebbero riscontrarsi più differenze fra le vecchie “zone rischiose” e quelle circostanti. Come sappiamo però, lo scarto dal punto di vista economico, sociale e demografico continua ad essere significativo. Gli Stati Uniti sono l’emblema di quello che oggi definiremmo un “melting pot“, qualcosa di cui l’attuale governo sembra essere molto orgoglioso. È legittimo andare fieri di una società multietnica in cui disparità e discriminazioni sono all’ordine del giorno?

Caterina Platania

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