Il protezionismo non paga: quali vantaggi e conquiste per l’America di Trump?

Il protezionismo non paga

Cina, Messico ed Europa sono i principali bersagli delle politiche protezionistiche di Trump

Le azioni intraprese dal presidente statunitense per tutelare l’economia della sua nazione stanno lentamente dimostrando che, nonostante alcuni vantaggi iniziali, il protezionismo non paga, né in termini economici né in termini politici. Vediamo brevemente, prima di procede all’analisi dei fatti, un elenco delle azioni messe in campo, o in programma, dal Tycoon.

  1. Inizio 2018: dazi su oltre 10 miliardi di dollari di prodotti importati con conseguenti ritorsioni da parte di Cina e Corea del Sud
  2. Marzo 2018: dazi sulle importazioni di acciaio (al 25%) e alluminio (10%), inizialmente diretti anche verso Canada e Unione Europea.
  3. Luglio 2018: dazi sui beni tecnologici cinesi (al 10%, poi elevato fino al 25%). Segue la risposta cinese con dazi del 10% su molti beni targati USA
  4. Intervento in programma ma non ancora attuato: dazi sulle importazioni automobilistiche contro, in particolare, Germania, Giappone e Corea.
  5. Altro intervento in programma: misure restrittive contro il Messico nel caso in cui non dovesse intervenire per ridurre  i flussi migratori

 




Il protezionismo non paga

Il costo dei dazi finora imposti sta pesando solo marginalmente sulle aziende e i paesi colpiti che, per il momento, registrano solo delle minime contrazioni nei margini di profitto. Nella maggior parte dei casi gli effetti delle varie misure son ricaduti sugli stessi consumatori americani, colpiti direttamente dagli aumenti dei prezzi dei prodotti d’importazione. Il vantaggio competitivo tanto atteso per le imprese americane, invece, stenta a farsi vedere.

Il criterio del “costo più basso“, infatti, già da tempo non è più l’unica variabile a determinare la scelta delle aziende compratrici  e dei consumatori privati. Molte altre variabili entrano in campo, prima tra tutte la semplice presenza di rapporti di fiducia. Le aziende statunitensi, ad esempio, che da anni comprano prodotti da imprese cinesi, si stanno dimostrando ben disposte a pagare le merci un 25% in più, piuttosto che mandare all’aria fruttuose collaborazioni e scambi di competenze, per ricominciare tutto da capo con altre aziende sul suolo americano.





I minimi benefici registrati, inoltre, sono stati rapidamente annullati dai dazi cinesi in risposta alle politiche di Trump. Dazi che hanno colpito prevalentemente il settore agricolo e gli stipendi dei coltivatori. Questi deludenti risultati mettono in luce come, il più delle volte, le politiche economiche unilaterali non siano in grado di raggiungere i risultati annunciati. L’equazione è piuttosto semplice: a monte di una politica unilaterale di un dato paese si legittima lo stesso tipo di politica, come ritorsione, da parte di tutti gli altri.  Il protezionismo non paga, proprio perché, realisticamente, i suoi effettivi vantaggi potrebbero manifestarsi solo in un ambito in cui la scelte economiche sono guidate solo e unicamente dalla ricerca del prezzo più basso e, in seconda battuta, solo se tutte le altre nazioni accettassero, in silenzio, i dazi imposti. Pura utopia.

Il caso europeo

Anche se l’Europa è riuscita ad evitare di finire sotto la campana di vetro dei dazi USA, Trump non risparmia critiche e minacce al vecchio continente. Le uniche motivazioni che hanno impedito a Trump d’imporre seriamente dei dazi all’UE, infatti, sono di carattere strettamente politico. I dazi causerebbero un ulteriore scollamento tra il vecchio e il nuovo continente, isolando ancor più l’America di Tump. Per ricevere conferma di questo, in fin dei conti, è sufficiente osservare la storia: Il protezionismo statunitense d’inizio 900 aveva condotto il paese ad un completo isolamento politico. Ma se a quel tempo gli USA potevano contare sull’industria più fiorente del mondo, adesso, nel nostro tempo, la situazione sembra essere piuttosto differente.

Negli ultimi giorni, ovviamente tramite Twitter, Trump ha mosso all’Europa e, in particolare, alla Germania, pesanti critiche sul modello di economia scelto dall’Unione. Il Tycoon ha infatti accusato i paesi europei di servirsi di un modello economico guidato dalle esportazioni e poco attento alla domanda interna. Ciò danneggerebbe le importazioni dei paesi esterni all’Unione riducendo la loro crescita potenziale. Per Trump la politica economica europea punta a creare vantaggi interni all’UE danneggiando tutti gli altri paesi.

Una critica di questo tipo, però, non può che risultare vagamente buffa se pronunciata dal paladino dell’America First.

La critica risulta infatti inaccettabile e incoerente da parte di chi sta basando tutta la sua politica economica sul protezionismo e sui dazi commerciali. Su questo paradosso, infatti, si sfalda tutta la strategia di Trump, che si pone ambizioni di governance globale ma che, in fin dei conti, si limita ad inseguirle tramite mosse unilaterali e imposizioni autoritarie.  Nel sottolineare la contraddizione ci viene in aiuto il così detto trilemma di Rodrik. Secondo l’economista, infatti, sarebbe impossibile ottenere, contemporaneamente, la globalizzazione economica, l’autodeterminazione nazionale e la democrazia.

Se il processo decisionale avviene a livello degli stati nazione, ignorando l’ambito globale, ogni accordo internazionale può essere annullato dal voto democratico. Gli interessi nazionalistici, infine, risultano spesso incompatibili con la globalizzazione economica che, al contrario, predilige e premia gli interessi globali e regionali.





Mentre la politica di Trump punta a creare una globalizzazione che segua le regole dettate dall’America, Rodrik ci ricorda che l’unico modo per “globalizzare” in maniera efficace ed efficiente è l’agire in termini sovranazionali. Stabilendo, di comune accordo, norme decisionali e comportamentali che facilitino ed agevolino la trasparenza e la responsabilità personale dei decisori pubblici ed economici. Ovvio, si potrebbe facilmente obbiettare che azioni di questo tipo non garantirebbero, al 100%, l’impossibilità di scelte economiche scorrette o “pericolose“. Tuttavia, azioni di questo tipo potrebbero fornire delle guide ai vari stati nazione scongiurando, un po’ di più, il rischio di politiche prettamente demagogiche.

Al termine di questa analisi possiamo dunque affermarlo nuovamente: il protezionismo non paga.

 

Andrea Pezzotta

 

 

Exit mobile version