Il profeta italiano medio
Purtroppo tendo a fidarmi poco della mia capacità di giudizio e così contribuisco colpevolmente ad infittire trame già inutili, come gli sceneggiatori di Lost.
Se dovessi dare un consiglio da questo angolino ingarbugliato d’esistenza vi direi di diffidare di chi ritiene di avere il dono della profezia perché quasi sempre deficita in lungimiranza. In pratica consiglio caldamente di prendere le distanze dall’italiano medio.
Non so perché, forse sarà il retaggio pagano del vaticinio poi riproposto e rafforzato da una ventina di secoli e rotti di cattolicesimo, ma molti di noi sono certi di possedere capacità che lambiscono il sovrannaturale, certezza che poi va ad intorpidire mortalmente la cara e vecchia capacità deduttiva. Il ragionamento è semplice: “se ho i poteri a che mi serve analizzare ciò che mi circonda? Valutare la catena di cause ed effetti o le palesi contraddizioni che vedo tra comportamenti e intenzioni? Insomma: perché dovrei essere Sherlock Holmes se sono già La Sibilla Cumana o Padre Pio?”
Va detto che queste figure, sia mitologiche che reali, hanno pagato a caro prezzo i loro doni, con sofferenze e privazioni indicibili (la povera Sibilla rattrappì sino a svanire), mentre oggi è più semplice fare i profeti, basta poco … tipo mangiare pesante la sera prima o mischiare con pervicace insistenza prosecco e rum.
Il tempo reale e l’accelerazione esasperata della vita moderna non ci permettono una formazione profetica completa: vagare in un deserto, cibarti di locuste, rincoglionirti fino al delirio per poi trovare una colonna, arrampicatrici sopra e restarci una quarantina d’anni. No, troppo complicato e poco pratico. Molto meglio convincersi di avere una sensibilità superiore alla media (media oltretutto superata da un numero sconcertante quanto sospetto di individui ) e continuare la tua vita convinto che prima o poi sarai un fumetto della Marvel!
Questa vana convinzione, che mi permetto di definire pagana, ossia tradizionalmente rurale, possiede invece la potenza “reale” di riportarci alla nostre origini, ma invece di aiutarci a ricordare a noi stessi ciò a cui siamo davvero radicati, cioè la terra che i nostri antenati hanno coltivato e ai cui capricci dovevano porre riparo in qualche modo, anche attraverso la ritualità magica, oggi – da tristi imborghesiti – non fa altro che renderci dei coglioni che nel migliore dei casi si limitano a celebrare solstizi ed equinozi abbracciati alle 5 del mattino a una quercia in piena pubertà che non ci caca neanche di striscio da 500 anni.
Sarà forse in nostro desiderio di sentirci unici a renderci così paradossalmente “comuni”, unito a ciò che antropologicamente già possediamo da secoli, ma raramente usciamo da questo schema incarnato, sospettosamente condiviso da troppi e che ha una conseguenza che ci limita non poco, cioè l’incapacità di mettere in discussione ciò che ci circonda in modo libero. Non chiediamo più alle cose di parlarci per ascoltarle ma di dirci esattamente ciò che vogliamo sentire da loro. Se siamo convinti di possedere una verità istintuale, profonda e, soprattutto, in qualche modo magica, piegheremo sempre ciò che accade intorno a noi ad essa. Cosa che si tramuta in un ottimo strumento di difesa, ma che ha come sola controindicazione l’isolamento cognitivo. Ma in fondo che fa? Il gioco vale la candela. Saremo ottimi profeti della domenica ma mai dei poeti, però il mio alveo di certezze istintuali non mi lascerà mai nudo nel mondo senza difese, e poi la legge dei grandi numeri mi verrà in soccorso: se dico un migliaio di cazzate statisticamente qualcuna, prima o poi, la azzeccherò!
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