Implacabile e divoratore, il circo mediatico va in scena prima ancora che la macchina della giustizia disponga degli elementi sufficienti per fare chiarezza. Così, il fatto di cronaca nera diviene un vero e proprio prodotto di consumo. Lo spettatore medio processa, sbraita e sentenzia. È questione di poco, che cambi il trend delle notizie, perché la questione si dica definitivamente risolta.
Il termine victim blaming si riferisce al processo mediatico alla vittima, ritenuta in parte responsabile del maltrattamento subito. Si tratta di un fenomeno ricorrente nei casi di violenza di genere, tornato tristemente in auge a poche ore dal rilascio della cooperante Silvia Romano, dopo 18 mesi di prigionia in Africa. Quali sono le ragioni e i meccanismi che spingono alcune persone ad accusare la stessa vittima per la violenza subita?
Il processo mediatico alla vittima: alla ricerca di false sicurezze
Se non vuoi andarci a letto, sulla macchina dei militari non ci sali.
È solo uno dei tanti beceri commenti che hanno travolto con un’ondata di odio le due studentesse statunitensi che nel 2017 hanno accusato di stupro due carabinieri che si erano offerti di riaccompagnarle a casa dopo una serata in discoteca. Perché si indaga sull’abbigliamento e sulla condotta della vittima, col fine di trovare un pretesto che possa permettere di stabilire che “se l’è cercata”? Tra le motivazioni che spiegano il victim blaming c’è la necessità di percepire il mondo come un posto sicuro e ordinato. In questo senso, incolpare la vittima per quanto le è accaduto serve a giustificare la violenza, avvenuta esclusivamente per mancanza di prudenza. Così, viene respinta l’idea secondo cui le tragedie possono accadere a chiunque. Infatti, questa percezione fornisce un illusorio senso di controllo, che attenua la sensazione di vulnerabilità.
L’ideale di vittima tra stereotipi e pregiudizi
Cosa accade quando una vittima di violenza non rispetta i canoni che ci aspettiamo debba possedere? Nel 1980, il criminologo norvegese Nils Christie ha presentato il concetto di vittima ideale. Questa viene definita come una persona che si trova in condizioni di svantaggio, all’interno di circostanze inevitabili. Il prototipo ideale di vittima è incarnato da un bambino o da una persona anziana, impotenti di fronte alla violenza. Al contrario, chi conduce uno stile di vita ritenuto immorale, viene percepito in maniera differente. Risale al novembre 2019 la sentenza Cucchi che ha condannato per omicidio due carabinieri a 12 anni di carcere. Nel corso della vicenda giudiziaria, sono state molte le esternazioni che hanno fatto leva sulla tossicodipendenza della vittima.
I carabinieri avranno anche sbagliato ma tuo fratello rimarrà sempre un drogato e spacciatore.
È necessario dunque che la figura della vittima combaci con quella del martire, affinché nei suoi confronti si possa provare un qualche sentimento preconfezionato di empatia.
Il processo mediatico alla vittima: 41 anni dopo il processo a Fiorella
Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire: «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio cugino, mio fratello, mio nonno, mio bisnonno vanno in giro?». Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.
Risale al 1979 il primo documentario mandato in onda dalla Rai, incentrato su un processo per violenza sessuale. Nel corso delle udienze, il ruolo della vittima ben presto venne rovesciato. La difesa accusò la ragazza di aver provocato lo stupro a causa dei suoi comportamenti trasgressivi. Aberranti le parole di uno degli avvocati degli imputati durante l’arringa finale, che tutt’oggi riecheggiano sulla bocca di troppi, senza che si provi la vergogna di scoprirsi, a propria volta, carnefici.
Laura Bellucci