Oggi, quando si parla di colpi di Stato non si pensa più all’America Latina, ma all’Africa. Nel continente nero, soltanto negli ultimi tre anni (da agosto 2020 a novembre 2023) sono stati sette i leader deposti da giunte militari. Il problema difficile della democrazia africana è indissolubilmente connesso con questo triste primato. E tuttavia, il golpismo africano rappresenta soltanto il sintomo, e non la causa, di una disfunzione politica molto più profonda.
Nei primi due decenni di questo secolo, in Africa si sono verificati 13 colpi di stato riusciti. Ma dall’agosto 2020 al novembre 2023 il golpismo nel continente nero si è diffuso in maniera pressoché inarrestabile. Nell’arco degli ultimi tre anni, nell’Africa subsahariana, i governi di ben sette leader sono stati rovesciati da giunte militari golpiste, riportando in primo piano il problema difficile della democrazia africana.
Del resto, la convinzione che i colpi di stato siano in grado di risolvere verosimilmente qualsiasi tipo di difficoltà, è un luogo comune radicato da sempre nelle élite di potere del continente nero. Ma il dato che emerge dai recenti colpi militari in Mali, Gabon, Burkina Faso, Niger, Sudan e Guinea rileva un aspetto ancor più allarmante: il sostegno sempre più solido della popolazione locale alle svolte autoritarie.
Un sondaggio annuale di
Afrobarometer ha rilevato come nel 2022 i cittadini di quasi tutti gli stati africani, compresi quelli dei paesi relativamente più stabili dell’Africa orientale e meridionale
, avessero la percezione che la tenuta dei propri governi fosse in pericolo e stesse andando in una direzione sbagliata.
Una differenza, questa, di non poco conto perché svela una connessione ancor più pervasiva tra il problema difficile della democrazia africana e le complesse dinamiche locali, ispiratrici della maggior parte dei colpi di stato nel continente nero.
La differenza rispetto al passato la si nota osservando l’atteggiamento delle nuove generazioni africane, sempre più disilluse dalle false promesse di democratizzazione, che hanno scorto nell’affermarsi di nuove giunte militari e governi autoritari l’ultima possibilità per interrompere lo storico allineamento con un’Europa animata ancora, dopo più di due secoli, da intenti sostanzialmente predatori.
La relazione tra golpismo e crisi della democrazia africana
Con
214 colpi di Stato tentati tra il 1950 e il 2022,
di cui 106 riusciti e 108 falliti, contro i 146 totali dell’America Latina, le
statistiche mostrano come in terra d’Africa un primato in materia di colpi di stato esista pressoché da sempre. I problemi economici sono scuramente il motore principale della frustrazione popolare che alimenta il dispositivo militare dei colpi di stato.
Basti pensare che i governi dei paesi subsahariani, principali protagonisti degli ultimi stravolgimenti politici, risultano fortemente segnati da fenomeni di corruzione, clientelismo e neo-patrimonialismo di stampo tipicamente occidentale che hanno aggravato una situazione economica già devastata da anni di conflitti locali.
A causa dei sistematici e repentini passi indietro sul fronte della sicurezza, del rispetto dei diritti umani, della partecipazione e dell’inclusione della popolazione nei processi di affermazione politica, rispetto a dieci anni fa, il problema difficile della democrazia africana è diventato un rebus quasi impossibile da sciogliere. Se negli anni passati, la popolazione africana interpretava i colpi di stato come la naturale dimostrazione dell’avidità di un ceto militare pronto ad accaparrarsi le risorse statali; oggi, la situazione è cambiata radicalmente, soprattutto nel Sahel, dove le prese di potere militari sembrano godere di un sostegno popolare piuttosto diffuso.
Quanto è accaduto in Mali, protagonista di ben due colpi di stato tra l’agosto 2020 e il maggio 2021 lo dimostra perfettamente. Una
ricerca del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, nel 2022, ha rilevato che otto maliani su dieci hanno deciso di sostenere la giunta militare insediatasi nel loro paese. Ma il sostegno dell’opinione pubblica ai golpisti si è visto in modo ancor più plastico con il
colpo di stato in Niger del luglio 2023 quando il popolo nigerino, animato da un forte sentimento antifrancese, ha sventolato per giorni bandiere russe nella capitale Niamey solidarizzando con i militari guidati dal generale
Abdourahamane Tchiani.
E per quanto le istituzioni internazionali stiano tutt’ora cercando di ostracizzare i paesi guidati da giunte militari, la fiducia della popolazione verso forme di governo autoritarie resiste ancora. L’Unione Africana (UA) ha sospeso l’adesione delle nazioni che subiscono colpi di stato imponendo dure sanzioni mentre gli stati europei, considerati dall’opinione pubblica africana alla stregua di controversi ‘benefattori’, hanno tagliato il sostegno finanziario ai governi golpisti. Ma l’approccio della tolleranza zero non sembrerebbe aver ottenuto i risultati sperati; per molti cittadini africani, infatti, una presa di potere militare resta la sola leva capace di smuovere uno status quo scoraggiante in un continente già duramente colpito da shock globali come la pandemia e il cambiamento climatico.
Perché il problema difficile della democrazia africana rischia di diventare impossibile
Nel corso del primo decennio di questo secolo, il predominio occidentale nel continente africano è rimasto sostanzialmente incontrastato mentre i governi locali hanno preferito mantenere un basso profilo evitando di entrare in conflitto con gli interessi degli stati europei. A pagare il prezzo più alto di questo stallo è stata la “democrazia elettorale” africana, prigioniera di un cono d’ombra ancora adesso difficile da dissolvere.
In questi anni, quei pochi paesi che hanno cercato di fare piccoli passi in avanti nel consolidamento democratico, si sono ben presto resi conto che la pratica rituale di indire sistematicamente nuove elezioni non si è tradotta quasi mai in un vantaggio di democratizzazione reale per il continente. La stragrande maggioranza degli stati si è arresa alla volontà di uomini forti che hanno intravisto nella ‘democratizzazione performativa’, il vettore di lancio per intraprendere una politica di apertura capace di soddisfare soltanto le proprie ambizioni personali.
Il problema difficile della democrazia africana è divenuto chiaro al mondo occidentale, quando sempre più leader nazionali hanno iniziato a sottoscrivere accordi con paesi come la Russia e la Cina, estendendo loro l’accesso alle generose risorse naturali in cambio di partnership strategiche, investimenti infrastrutturali e prestiti statali.
Il Sudafrica, ad esempio, è considerato dall’Occidente come un baluardo della democrazia liberale nel continente africano, e può vantare istituzioni democratiche abbastanza solide come i tribunali; tuttavia, anche questo paese sta attraversando una crisi economica molto difficile che ha portato al pettine i nodi di una complessità sociale irrisolta da decenni. Inoltre, il Sudafrica fa parte dei BRICS, il raggruppamento delle economie mondiali emergenti insieme agli altri membri fondatori Brasile, Russia, Cina eIndia che notoriamente non richiede ai propri partner la democraticità e il rispetto dei diritti umani come requisito essenziale per per poter entrare.
E’ ancora possibile invertire la rotta?
La crescita economica, negli ultimi lustri, di attori statali non riconducibili alla famiglia delle liberaldemocrazie, così come l’approccio punitivo della comunità internazionale nei confronti dei paesi guidati da giunte militari, hanno fomentato l’instabilità politica, ostruendo in maniera semipermanente il percorso della democrazia nel continente africano.
Ogni volta che salgono al potere, i golpisti promettono alla popolazione di ripristinare la sicurezza e migliorare la vita, finendo con il peggiorare le cose. Ma anche gli sforzi di organismi come l’UA per invertire le conseguenze catastrofiche dei colpi di stato non hanno quasi mai il successo sperato. In linea teorica, istituzioni come l’Unione Africana (UA) sarebbero in grado di ostacolare il proliferare di colpi di stato militari, ma purtroppo non funzionano come dovrebbero.
Per invertire questa tendenza potrebbe essere utile provare a elaborare una comprensione più ampia del fenomeno dell’autoritarismo africano, di cui il golpismo rappresenta sicuramente il sintomo più evidente, ma non la causa scatenante.
Dal momento che il motore principale delle svolte autoritarie sono i problemi economici e il bisogno di sicurezza della popolazione, una possibilità per uscire da questa impasse potrebbe essere quella di provare a costruire un sistema continentale che persegue una reale integrazione economica mediante la progressiva creazione di un mercato comune.
Venendo poi al tema delle sanzioni, contestualmente alla sospensione dei paesi che subiscono cambiamenti di governo incostituzionali, sarebbe opportuno trovare anche altre alternative. In linea di principio, sospendere un paese golpista risponde a quanto stabilito dalla Carta dell’UA, ma per ottenere un cambiamento di rotta significativo anche nella popolazione, occorre fare molto di più.
Non va dimenticato, infatti, che l’indipendenza attuale delle nazioni africane è l’effetto di un processo sostanzialmente eteroguidato dai paesi “occidentalizzati”, con le dovute differenze per quanto riguarda il substrato culturale e storico-antropologico. Pertanto, una composizione alternativa tra sviluppo economico e democratizzazione su scala continentale dovrebbe focalizzarsi su un processo di integrazione che sappia valorizzare al meglio le prospettive di progresso materiali e culturali dei giovani africani, perché è soprattutto da loro che dipende il futuro democratico del continente.
Tommaso Di Caprio