“Il prigioniero americano” è un console degli Stati Uniti che si scopre combattente partigiano con la brigata umbra San Faustino. Le sue improbabili vicissitudini si incrociano con quelle dell’ungherese Maria Keller De Schleitheim, étoile di una compagnia internazionale di danza, poi spia internazionale. Il nuovo romanzo di Giovanni Dozzini rispolvera una storia di Resistenza ingiustamente dimenticata.
Le vicende raccontate ne “Il prigioniero americano” (edizioni Fandango) riemergono dalle fumose pieghe della Storia quasi per caso e giungono alle orecchie di Giovanni Dozzini, giornalista perugino, durante un incontro dell’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Qualcuno, in quell’occasione, rievoca la figura di Walter Orebaugh, console americano di stanza a Nizza e a Montecarlo durante la seconda guerra mondiale, arrestato dai nazifascisti in seguito all’occupazione italiana della Francia meridionale e unitosi, dopo l’Armistizio del 1943, alla brigata San Faustino sui monti di Pietralunga, nei dintorni di Perugia. Qualcun altro, invece, nomina una certa Maria “Marion” Keller, un’affascinante donna ungherese di nobili origini e prima ballerina di una compagnia internazionale di spettacolo che, dopo aver calcato i palcoscenici più importanti del Mediterraneo, si trova a tramare prima contro e poi insieme allo Stato Fascista in qualità di spia.
Le vite di Walter e Maria tornano così a intrecciarsi, dopo più di settant’anni dal loro primo incontro.
La genesi del romanzo
Il germe della curiosità nei confronti di questa storia, unica nel suo genere, si instilla nella mente dell’autore che inizia un viaggio, fisico e intellettuale, lungo circa un anno, alla scoperta delle vicende che hanno animato i monti intorno a Perugia durante la Liberazione. Mentre dunque il Coronavirus all’inizio del 2021 imperversava in Umbria e in tutta Italia, Dozzini (Premio letterario Unione europea 2019) si immergeva nella memorialistica e nella storiografia, nei vecchi giornali e nei diari dei partigiani, nelle cronache di guerra dello stesso Orebaugh, contenute nel libro Guerrilla in Striped Pants: A U.S. Diplomat Joins the Italian Resistance.
Un approccio letterario attento al dettaglio e alla precisione storica porta l’autore a scoprire di persona le montagne intorno a Pietralunga e gli altri luoghi della Resistenza dell’Appennino centrale. Dozzini ha potuto così sviluppare una profonda conoscenza, sociale e geografica, dei territori che fanno da contesto alle vicende raccontate. “Il prigioniero americano” gode infatti di una narrazione particolarmente attenta all’orientamento geografico e alla caratterizzazione ambientale, aspetti che diventano dinamici quando l’azione drammatica lo richiede.
Una piccola, grande storia
Le azioni di Resistenza della brigata San Faustino sono solo minuscoli corpi celesti nell’immensa galassia storiografica e letteraria che ruota intorno alla Liberazione. Eppure, proprio in virtù di questa loro apparente insignificanza, sono in realtà fondamentali. Parimenti Walter Orebaugh, il protagonista, ufficiale diplomatico di una delle grandi potenze del Pianeta, uomo giramondo, si trova all’improvviso nel microcosmo provinciale delle montagne di Pietralunga. Dai cocktails degli eleganti ritrovi dell’alta società europea al vino rosso bevuto di fretta dal fiasco nei boschi del centro Italia.
Giovanni Dozzini, che non si pone di certo l’arduo e deliberato scopo di sensibilizzare i più al macro tema della Resistenza (preferendo infatti “lasciare una suggestione”), decide farsi portavoce di una storia sconosciuta ai più, “locale”, lontana dagli ingombranti avvenimenti della storia italiana del Novecento. Una scelta consapevole e meditata, dal momento che ricorda a tutti noi lettori di cominciare proprio dai nostri dintorni, da ciò che conosciamo meglio, per approcciare in modo consapevole lo svolgersi della Storia, quella con la S maiuscola.
Considerando dunque il costante pericolo di vedere parti più o meno significative della nostra Storia essere dimenticate, è importante riscoprire nascosti e impolverati racconti di Resistenza come quello de “Il prigioniero americano”?
Sì. Per quale motivo?
A rispondere è lo stesso Dozzini, in un’intervista rilasciata a Ultima Voce:
Le storie che riguardano gli uomini non invecchiano mai davvero, non fino in fondo.
La straordinaria normalità della Liberazione
Emerge una tematica, in particolare, da questo romanzo storico: il contatto tra il protagonista Orebaugh e il mondo contadino che lo accoglie e lo protegge. La straordinarietà della guerra come regime d’eccezione sembra a un primo sguardo non intaccare in alcun modo la ciclicità secolare delle vite delle persone che abitano quei luoghi. L’asperità e la rinuncia tipiche della vita agropastorale (in particolare, in quegli anni) non inficia il modus vivendi degli abitanti di Pietralunga e dintorni.
Era un uomo libero, Ruggero, quindi, sì o no? La vita che conduceva non era forse quella che chiunque si sarebbe aspettato per lui fin da quando era venuto al mondo? La sveglia prima dell’alba, il lavoro nei campi, una moglie e dei figli, e le lunghe notti sul materasso di paglia che cominciavano poco dopo il tramonto. In quelle settimane Orebaugh aveva riflettuto spesso su ciò che gli aveva detto Bonucci dei contadini con cui si ritrovavano a condividere la lotta, e aveva convenuto che ci fosse davvero
poco da esser certi sulla natura delle loro motivazioni.
È un contesto unico nel suo genere, quello narrato: un alto funzionario degli Stati Uniti si aggrega in tempo di guerra alle milizie partigiane di alcuni sperduti paesi del centro Italia e condivide le sue giornate con contadini, soldati inglesi, giovani guerriglieri. Tuttavia, questa storia d’eccezione si scontra con l’immutabilità e l’ordinarietà delle tradizioni di vita portate avanti dagli abitanti. Così facendo, essi sono in grado di non farsi coinvolgere nella totale sospensione di normalità che l’idea della Guerra sembra portare con sé.
Dozzini lascia intendere proprio questo, ovvero che solo dal momento in cui comprendiamo che“c’è sempre qualcosa che non cambia nella natura umana e soprattutto nei rapporti tra le persone” riusciamo a entrare nello spirito dei tempi
Solo così guadagniamo la possibilità (e probabilmente il dovere) di raccontare e scrivere del Passato.
Fernando non sorrideva. Aveva un’aria seria e dimessa di cui, Orebaugh avrebbe scoperto presto, era incapace di liberarsi anche nei momenti di esaltazione o di comune ilarità. Il suo animo contadino non gli consentiva di lasciarsi andare, in nessuna occasione, perché l’implacabile scure del tempo sarebbe stata in grado di cadergli tra capo e collo, lo dimostrava la storia del mondo e del mondo che lui aveva sempre abitato, da un momento all’altro. Fernando preferiva non coltivare aspettative, o perlomeno non darlo mai a vedere: prendeva ciò che veniva, senza giudicarlo buono o cattivo, per il semplice fatto di non pretendere che la vita potesse andare meglio di come il destino decideva che andasse. Il presente, la semina, i frutti.
Luca Oggionni