Di Daniela Morandini
“Il posto di guardia” è il luogo dove è sepolta una donna vittima di un Meridione oscuro.
Figlio del grande Raffaele, Vittorio nasce in una famiglia in cui si incrociano altri due nomi della cultura del Novecento: Scarpetta e De Filippo. Queste le radici anche del figlio Paolo, che vive a Milano, è professore di neuroscienze, appassionato di musica classica e fotografia, e ha ridato vita a questo testo, chiuso in un cassetto per più di quarant’anni.
“Era un’eredità da pubblicare” spiega. “Mi sono trovato davanti a questo impegno quando sono tornato in Italia. Ma per avere un editore servivano tempo e calma: erano le pagine importanti, scritte a mano, della giornata di Crescenzo Falarino”.
Una storia, questa, che va oltre la trama. È una rete di pensieri e di immagini che, da Napoli a Catania, fa pensare al Sud cupo di Goliarda Sapienza. È un incrocio di fantasmi, che non si afferrano, si bloccano ma non si arrendono, come la scrittura del suo autore.
“Dal primo romanzo, La danza sul vuoto continua il professore, “mio padre ha ricercato un linguaggio che, attraverso la poesia, permettesse di scrivere in prosa. In questo libro, il linguaggio diventa lo strumento per entrare nella vita di un uomo senza qualità che, finito il populismo di Lauro, s’infrange contro lo scempio della Democrazia Cristiana”.
Tuttavia, Il posto di guardia non è un romanzo politico: Crescenzo Falarino pare un Leopold Bloom partenopeo e la sua Odissea è l’esilio dalla vita.
“Certo, l’analogia è azzardata”, commenta ancora il professore, “ma mio padre conosceva bene le camminate a Dublino. Aveva una cultura sterminata e questo, forse, era il suo limite: era consapevole di tutto”.
Una consapevolezza che trascina il lettore in una città senza sole, tra un “Cristo iracondo nello scagliare fulmini come Zeus”, come si legge nel libro, e Madonne schiacciate da scatoloni e ceri elettrici. Tra “intoccabili che continuano ad esistere come la frutta marcia sugli alberi e fronti appoggiate sugli inginocchiatoi, quasi in attesa di un colpo di scure”. Come per Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli.
“Mio padre conosceva la città come pochi. L’ha vissuta sulla strada, anche di notte. Ha visto la disperazione per una palingenesi possibile che non si è verificata. Sapeva di vivere in un posto dannato, ma quello era il suo posto”.
In quella Napoli porosa, così la definiva Benjamin, ritroviamo le origini illustri del professore. Vincenzo Scarpetta e Raffaele Viviani erano i nonni. Eduardo Scarpetta il bisnonno. Eduardo De Filippo il prozio. Maestri che da poco sono stati reinterpretati sullo schermo in Qui rido io di Martone e ne I fratelli De Filippo di Rubini. Ma cosa manca ancora perché entrino fino in fondo nella nostra cultura?
“Ancora non si è riusciti in quello che ha fatto Goldoni”, sostiene Paolo Viviani. “Il napoletano è un dialetto, non una lingua, perché la sua forma scritta non è stata canonizzata. Pensiamo a Di Giacomo, a Vincenzo Russo, o a Raffaele Viviani: ognuno lo usa a modo proprio. Non posso poi dimenticare, che quando il mio bisnonno, Eduardo Scarpetta, vinse la causa che gli era stata fatta da D’Annunzio per la satira su La figlia di Iorio, proprio Benedetto Croce, che l’aveva difeso, gli ricordò che D’Annunzio restava un grande scrittore, e che lui, invece, era solamente Eduardo Scarpetta”.
Eppure, con il lavoro dell’attore, sarebbe possibile andare oltre la parola e un’analogia tra il teatro di Raffaele Viviani e quello di Brecht non sarebbe azzardata.
“Mackie Messer potrebbe essere nato sotto al Vesuvio, ma non è così”, insiste il professore. “Brecht scriveva in un tedesco che poteva essere quello di Goethe. Mio nonno invece usava un vernacolo quasi incomprensibile. Ne ho parlato anche con Chomsky. Gli ho chiesto che cosa sia una lingua e mi ha risposto: «un dialetto con un esercito e un passaporto», cioè un sistema di segni forte e legittimato”.
Eppure, il linguaggio di Viviani è riuscito a portare la borghesia al San Carlino, il teatro del popolo e di tanti Pulcinella. I suoi spettacoli hanno trasformato in una sinfonia tante storie di guappi, di luciani, di sciantose. Sulla scena diventava protagonista il sottoproletariato di una Napoli offesa, che continuava a voler essere a colori.
“Ma Brecht era comunista e Viviani era monarchico. Il mio bisnonno era nato a Castellammare di Stabia alla fine dell’Ottocento, era cresciuto a Napoli nel Borgo Sant’Antonio, aveva fatto un po’ di soldi, si era persino comprato un’Astoria, una macchina lussuosissima per quei tempi, ed era fiero dell’autografo che gli aveva fatto Vittorio Emanuele. Non è difficile capire perché dicesse di essere monarchico! Del resto, Balzac, che era un vero reazionario, ha scritto Illusioni perdute…”.
In questa successione di attori, autori e capocomici, quest’anno, un nuovo Eduardo Scarpetta ha vinto un David di Donatello per l’interpretazione di Vincenzo Scarpetta nel film Qui rido io. “É il figlio di Mario, attore nato, ma sarebbe pericoloso continuare su una tradizione localistica: occorrerebbe andare oltre”, commenta il professore che non ha seguito la ricerca del teatro, ma quella di molecole e neuroni.
“Non è stato molto difficile. Mio padre sosteneva che il palcoscenico fosse complicato: o si nasce attori o è una maledizione. Forse non è stato gentile, ma mi ha insegnato il rigore: spesso, quando ero piccolo, i miei disegni finivano nel cestino. – Sono scarabocchi! – diceva. Lo stesso faceva quando, più tardi, provavo a scrivere qualche rima. Il disegno e la poesia sono cose serie, insisteva”.
Tra le cose serie di quest’uomo di scienza, c’è anche la fotografia. Sono ritratti e architetture: un bianco e nero rigoroso, essenziale. “Non credo sia un’arte, ma una forma di comunicazione, a meno che uno non sia Cartier Bresson… Forse, c’è un nesso tra le mie immagini e le parole di mio padre: il lavoro per sottrazione”.
L’obiettivo passa implacabile da Pechino a Lisbona, da Ginevra a Dresda, ed è più severo proprio quando mette a fuoco la città partenopea: il Mercato della Pignasecca, via del’Anticaglia, via Santi Apostoli e l’Ospedale dei Pellegrini: posto di guardia dove comincia l’Odissea di Crescenzo Falarino.
“Sono andato via da Napoli nel ‘67” ricorda Paolo Viviani, “ma ogni volta che torno è come se mi si girasse una chiavetta e ricomincio a parlare in dialetto. Eppure, non basta: se per assurdo avessi a disposizione milioni di fondi per risanare, non saprei da che parte cominciare. Io ho bisogno di vivere in una macchina che funziona”.
Sono parole che potrebbero sollevare il risentimento di molti napoletani. “Dipende”, replica il professore.
“La pensano così anche molti napoletani che vivono a Napoli, ma loro hanno gli anticorpi. Lasciamo perdere i neoborbonici, o chi sostiene che Napoli sia stata un’Arcadia felice… Io faccio gli auguri ai tanti giovani che provano a cambiarla e penso che, come tutto il Mezzogiorno, Napoli sia una questione nazionale, ma non vedo nessuna aggregazione politica, culturale e finanziaria capace di affrontarla. Disse bene Salvatore Di Giacomo: – Nuné nu vico. È na scarrafunera. Ma Napoli resta per me un luogo dell’anima”.