“La valigia di mio padre” di Orhan Pamuk lo lessi tutto d’un fiato, poi lo posai senza più riuscire a toccarlo, aprirlo, come celasse qualcosa di sacro.
Non riesco nemmeno a definirlo e classificarlo come romanzo tale è la sua grandezza che costipa la mia presenza a esile parvulus e mi fa tacere. La bellezza non ha bisogno di parole, sarebbe come inficiare qualcosa che è perfetto di per sé proprio perché racchiude tutto ciò che è umanamente perfettibile.
Supera ogni barriera semantica e culturale e ricostituisce l’imago sgranata dell’io di tutti noi. Il potere dell’individuo e dell’individualismo.
Spesso nell’epoca odierna vige il pregiudizio errato che l’individualismo sia connivente con la diseguaglianza. Questa concezione pecca di pressapochismo. Senza la forza dell’io non sarebbero nati grandi musicisti, filosofi, scrittori. Come conclude Rilke nei suoi sonetti a Orfeo:
Dì alla terra immota: io scorro.
Alla rapida acqua parla: io sono.
E mentre cito Rilke e penso a quella sensazione, vaga ma precisa al medesimo tempo, che mi accompagna da quando ho letto “la valigia di mio padre”, sorrido, poichè penso a quanto faccia parte del nostro io il nostro passato e ci definisca.
Come uno squarcio in una tela di Fontana, irrompe il ricordo di mia nonna che mi domandava sempre, quando ero all’inizio di questo impervio cammino alla volta della scrittura: “Ti pagano?”- e io rispondevo: “No, ma c’è la mia firma”. E lei con il viso rigonfio dalla soddisfazione: “Ecco questo conta”.
Ancora riesco a riconoscere il suono di quando gira la chiave di casa mio padre o mia madre. L’uno veloce, spedito, “teutonico”; l’altra più lento, sebbene perentorio nella sua costanza. Appunto il mio “nome omen”. Ci sono delle pulsioni che vanno al di là di ciò che conosciamo, oltre il nostro apparato cognitivo. Come se le avessimo sempre sapute.
Pamuk sostiene che la scrittura porti a trattare ciò di cui conosciamo ma che ancora non sappiamo di conoscere.
La letteratura inizia in una stanza, ripiegati su sé stessi, con il vettore della fantasia e costruisce, edifica, languendo sulle ferite, interiorizzandole. Il potere della fragilità e delle nostre vergogne.
Il punto è che è proprio l’individuo a unire le coscienze, poiché ci si sente parte di un unicum umano. Questo è il “planetario” di mio padre: vedrò sempre il mondo, ponendomi come un’unità che guarda nello spioncino di quell’enorme cannocchiale rotto nel salotto di famiglia.