Attenzione: per raccontare il pianoforte a gatti in questo articolo nessun gatto è stato ferito o brutalizzato in alcun modo.
Credevo, leggendo dei polli di Thomas Vicary contro la peste, di averle sentite tutte; invece, non avevo ancora scoperto il pianoforte a gatti. Che cos’è? Fondamentalmente, uno dei più bizzarri punti d’incontro documentati tra le elucubrazioni di filosofia, psicologia e letteratura. Un dispositivo terapeutico tra teoresi e provocazione.
Che cosa diavolo è il pianoforte a gatti?
Il pianoforte a gatti è uno strumento “musicale” che nella struttura ricorda un pianoforte o un organo. Da una parte, dove si accomoda il suonatore, c’è una tastiera. Dall’altra, una serie di gabbiette in cui siedono gatti le cui code sono collegate alla tastiera. Pigiando il tasto, si pigia anche la coda del felino che, giustamente risentito, produce un miagolio di tonalità variabile. In base alla tonalità media che il micio produce miagolando, viene collocato in un certo punto della tastiera.
L’idea vi sembra assurda e raccapricciante? Avete assolutamente ragione. Se può consolarvi, mentre altre schifezze concepite dall’umano ingegno sono diventate realtà, il pianoforte a gatti è rimasto (a quanto ne sappiamo) un’entità puramente ipotetica. Lo si è immaginato (e questo già sarebbe sufficiente), descritto con dovizia di particolari, ma nessuno è stato così matto o così scemo da realizzarlo davvero. Il mondo felino ringrazia. Ma chi può aver avuto un’idea così malata e perché?
Le origini del clavicembalo felino
Cicerone, in effetti, ci aveva messi in guardia:
Nulla di tanto assurdo può essere detto che non sia già stato sostenuto da qualche filosofo.
(De Divinatione, 2, 58)
Per avere un’idea del genere, insomma, sembra proprio che ci volesse un filosofo. Nello specifico, sembrerebbe che il colpevole sia stato il gesuita e pensatore tedesco Athanasius Kircher, nel XVII secolo. In base alla testimonianza di un suo allievo, Caspar Schott, Kircher avrebbe usato lo strumento per cercare di curare (senza riuscirci) un principe italiano caduto in depressione. A quell’epoca, bisogna ricordarlo, la caccia alle streghe era ancora in corso e si riteneva che i felini ne fossero i principali aiutanti nel perpetrare il maligno. Perciò, costruire e utilizzare uno strumento come il pianoforte a gatti poteva essere un’idea per “addomesticare” il male che avesse colpito qualcuno. Nondimeno, è possibile anche che Schott ci abbia presi in giro. Infatti, Kircher stesso descrive accuratamente il pianoforte a gatti in una sua opera di finzione, ma il resoconto è chiaramente ironico. Perciò il gesuita potrebbe sì aver ideato un dispositivo terapeutico finzionale (del resto non gli sarebbero mancati spunti per meccanismi crudeli), senza tuttavia mai realizzarlo.
Il pianoforte a gatti per curare la mente
Se per Kircher il pianoforte a gatti era una specie di scherzo, per qualcun altro invece era una faccenda serissima. In particolare, lo psichiatra e fisiologo Johann Christian Reil andò molto vicino a realizzarlo davvero a scopo terapeutico. Ora, Reil non era precisamente il classico “scienziato pazzo“. Fu uno tra i medici più influenti del Romanticismo, ideatore del termine stesso “psichiatria” e fondatore della prima rivista dedicata alla disciplina.
Lui credeva che i disturbi della psiche non fossero un male ereditario oppure organico, ma una disarmonia delle funzioni mentali radicata nel sistema nervoso. Per ripristinare l’equilibrio, a volte serviva quella che non esiteremmo a definire una “terapia d’urto”. Per esempio, se il paziente era catatonico o presentava disturbi della concentrazione, secondo Reil qualcosa come il pianoforte a gatti costituiva la soluzione ideale. Nessuno, infatti, sarebbe potuto rimanere indifferente alla sua “musica”.
In effetti, nessuno sano di mente potrebbe restare indifferente al miagolio di felini intrappolati e torturati. Proprio per questo il pianoforte a gatti è e resta una pessima, pessima, pessima idea.
Valeria Meazza