Poche volte l’idea di farmi un tatuaggio ha sfiorato la mia mente, poche e brevi: la scelta del segno, del simbolo, della parola mi ha messa subito in difficoltà. “E se poi me ne pento? E se quello che decido di farmi tatuare, tra qualche anno lo avvertirò come qualcosa di estraneo a me, o di superato, o di confuso con altro?”: il dilemma è stato questo perché il tatuaggio resta, sopravvive alle stagioni, alle piogge e al sole che vi si abbattono sopra; sopravvive alle passioni passeggere, agli amori finiti, ai sogni infranti. “Ci penserò l’anno prossimo”: così, ogni volta, ho concluso il discorso!
Perché un tatuaggio è per sempre, altro che diamante! Il diamante lo si può vendere, barattare, distruggere: ma la propria pelle, no. Quella resta e ricorda e racconta tutto, anche quello che fa male, anche quello che si è preferito chiudere e che si vuole dimenticare. La pelle resta.
Lo sanno il fotografo Steven Burton e le persone da lui fotografate per il suo ultimo lavoro a cui ha dato il nome di Skin Deep: ex appartenenti a gangs criminali sono stati/e ritratti/e attraverso scatti successivamente modificati. Il cambiamento che il fotografo ha apportato agli scatti ha riguardato l’eliminazione dal volto e dal corpo dei soggetti dei non pochi tatuaggi, segni del loro passato. La reazione delle persone sulle cui foto ha lavorato Burton, non ha lasciato indifferente neanche lo stesso fotografo: rivedersi nella pelle priva di ogni marchio di appartenenza, ha suscitato emozioni e silenzi.
Perché il passato, forse, fa solo finta di essere passato: in realtà si nasconde dietro ogni luna del presente che viviamo e dietro ogni angolo del futuro che ci aspetta. D’altronde, ogni presente ed ogni futuro, sono figli del passato: non saremmo come siamo se non avessimo fatto, detto, vissuto ciò che è stato e che, come un tatuaggio, resta sulla pelle. E, ahimè, anche se volessimo cancellarlo, la tecnica del Photoshop non basterebbe. E non è bastata neanche a coloro che si sono prestati e prestate a favore di questo forte progetto di Steven, anche se, certamente, per loro è stato un salto nel passato che ha preceduto il passato che desiderano dimenticare; un salto tra le pagine di calendari spensierati e puliti; un salto nel mare di un’età che non può essere sempre azzurra (come cantava Augusto Daolio); un salto nei ricordi di scatti, di fotografie che non necessitano di modifiche e perfezionamenti: la libertà che caratterizzava il periodo, è sufficiente per rimpiangerlo.
Skin Deep, un bellissimo lavoro che non lascia indifferenti. Perché, pur se con modalità e peso diversi, molti, molte, hanno vissuto un passato che desiderano dimenticare, eliminare: come il Photoshop fa con ciò che dello scatto non piace o che non si riconosce come propria caratteristica. Il Photoshop: tecnica sconosciuta, però, al presente che conosce perfettamente il passato da cui proviene.
Deborah Biasco