Il paradosso liberale e l’ipocrisia occidentale 

ipocrisia occidentale

L’ipocrisia occidentale si manifesta in diverse forme. Da un lato, si condanna la violenza quando essa viene perpetrata contro civili innocenti, ma dall’altro si giustifica quando è lo stesso Israele a compierla in nome della sua “difesa”. Si denuncia l’apartheid e la discriminazione razziale, ma si continua a sostenere uno stato che si basa proprio su questi principi. Si proclama il diritto all’autodeterminazione dei popoli, ma si nega questo stesso diritto ai palestinesi. L’ipocrisia occidentale è un ostacolo alla pace. Finché non avremo il coraggio di guardare la realtà in faccia e di ammettere le nostre responsabilità, non sarà possibile trovare una soluzione giusta e duratura al conflitto israelo-palestinese.


Quante volte, da cinque mesi a questa parte, è capitato di incrociare frasi del tipo “ma Israele sta esagerando, non può uccidere così tanti civili”, seguite subito dopo da affermazioni come “però bisogna riconoscere il diritto di Israele di esistere e difendersi”.

Ecco qui espresso il fulcro dell’ipocrisia occidentale.

Per ripulirci la coscienza ci indigniamo davanti alle vittime innocenti trucidate in nome della ragione di stato d’Israele ma senza mai avere il coraggio di mettere in discussione l’assetto politico e l’ideologia sionista, impregnata di un profondo odio suprematista, su cui tale stato si fonda fin dalle sue origini.

Israele nasce da un progetto coloniale e imperialista e si fonda su presupposti suprematisti, nel momento in cui i coloni hanno messo piede sul suolo palestinese hanno ufficialmente dichiarato guerra ai nativi intraprendendo azioni di terrorismo per costringerli ad andarsene via.

Già a partire dagli anni “30 i coloni sionisti avviarono la colonizzazione agricola della Palestina e incentivati dagli enormi flussi di denaro provenienti dall’Europa e dall’America, cominciarono ad insediarsi con astuzia sfruttando abilmente le carestie e la grave depressione economica degli agricoltori autoctoni, per proporgli l’acquisto delle loro terre, su cui avevano investito sacrifici e lavoro, a prezzi irrisori.

Questo fu un primo passo.

Successivamente, iniziarono ad estromettere i nativi dal lavoro agricolo e dal subaffitto dei terreni, togliendogli ogni fonte di sostentamento. La discriminazione e la violenza furono fin da subito le regole attuate dai coloni sionisti nei confronti dei palestinesi.

I gruppi terroristici sionisti, Irgun e Haganah, misero a punto il piano Dalet che prevedeva come punto fondamentale la necessità di stroncare ogni forma di resistenza autoctona attraverso azioni volte ad incutere terrore negli arabi-palestinesi come gli attacchi mirati contro i villaggi arabi con l’intento di scacciare la popolazione dalle proprie case e terre, in modo da ampliare i territori dello stato di Israele in cui creare nuovi insediamenti.

La storia da 75 anni ad oggi ci ha ampiamente dimostrato che l’imposizione di una struttura statale artificiale da parte dei coloni ad una popolazione preesistente non può che realizzarsi per mezzo di sfollamenti di massa, apartheid, privazione di diritti e oppressione, generando inevitabilmente come reazione violenze e conflitti per resistere a tale stato di guerra dichiarata.

Ciò non significa che gli ebrei non abbiano diritto ad una nazione dove poter vivere al sicuro, la maggior parte della popolazione di religione ebraica, oggi vive sparsa nel resto del mondo, perfettamente accolta ed integrata, ma l’esigenza di riconoscimento identitario e il diritto di autodeterminazione di un popolo non può e non deve realizzarsi a scapito del benessere, se non addirittura della stessa esistenza di altri popoli.

Non possiamo pensare che sia tutto sommato accettabile un etnostato ebraico nella Palestina storica, non necessariamente violento e tirannico, ma fondato su un assetto politico e sociale discriminatorio.

Due popoli non possono vivere in pace e concordia quando uno dei due soffre e sopravvive nella privazione di bisogni basilari, mentre l’altro prospera.

Non si tratta di invidia sociale ma di un principio di giustizia: se un individuo viene estromesso da determinate attività oppure privato della possibilità di approvvigionarsi di acqua o cibo, inevitabilmente sentirà il bisogno fisiologico ed umano di ribellarsi.

La resistenza all’oppressione non è terrorismo ma anelito di libertà e speranza, non di mera sopravvivenza, gentilmente concessa ed elargita dalla potenza occupante, bensì di esistere e autodeterminarsi.

Un essere umano non può esistere quando vive in un contesto che lo discrimina sulla base della sua etnia di nascita.

La situazione ideale sarebbe uno stato, unico ed inclusivo, in cui palestinesi ed ebrei possano convivere pacificamente ma chiaramente ciò implicherebbe una profonda messa in discussione dell’attuale stato d’Israele.

Non può esserci convivenza pacifica all’interno di una nazione fondata su basi suprematiste.

L’idea di un nuovo stato multiculturale è in contrasto con il progetto sionista che mira a garantire sicurezza e diritti esclusivamente al popolo ebraico, escludendo qualsiasi riferimento agli autoctoni, considerati come inferiori, nonché ostacoli di cui sbarazzarsi perché gli ebrei possano vivere in pace.

Un sistema dunque che garantisce benessere solo ad un popolo al costo dell’oppressione e della segregazione di un altro popolo potrà mai tendere alla pace? Uno stato unitario, multiculturale e multietnico può realizzarsi solo attraverso una rivoluzione dell’attuale sistema di vita e di governo e lo smantellamento delle fondamenta profondamente razziste su cui da 75 anni Israele si regge.

Il proposito di uno stato multietnico non può coesistere con l’attuale situazione in cui versa Israele, dilaniato dall’odio razziale e dalla ferocia suprematista, piegato all’estremismo dei coloni che dettano legge.

Il paradosso occidentale, figlio di un’ipocrisia imperante, consiste nel far finta che non esista un sistema di tirannia, ingiustizia e apartheid, ma solo una violenza, seppur giustificata dalla lotta contro Hamas, a cui bisogna porre fine.

L’ipocrita occidentale medio non mette in discussione lo status quo attuale d’Israele che per reggersi non può che fare ricorso alla guerra e all’oppressione, ma auspica solo che tale ferocia possa essere contenuta, in modo tale da non turbare troppo i suoi sogni sereni.

Gaza, Israele, Palestina nomi ridondanti ma così distanti dalla nostra realtà, in fondo l’apartheid subito dai nativi palestinesi non ci tocca, poi sono anche così diversi da noi per etnia, religione, usi e costumi, tutto sommato si può anche chiudere un occhio.

Ma l’ipocrita occidentale medio ha bisogno di sentirsi a posto con la propria coscienza inerte, quindi le violenze e i soprusi d’Israele vanno bene ma solo finché non si manifestino in modo troppo eclatante da sconvolgere la sua finta morale.

Tuttavia, per non apparire ipocriti conclamati, l’occidentale medio si convince che le causa esclusiva delle atrocità a cui stiamo assistendo abbia un nome e cognome, ovvero Benjamin Netanyahu, quindi basta solo rimuoverlo per far cessare l’attuale ferocia contro i civili di Gaza.

Bello vivere di fantasie costruite per non vedere in faccia la realtà.

Questa rappresentazione oltre ad essere storicamente errata, ignora totalmente la complessità della questione palestinese.

La segregazione e l’oppressione dei palestinesi non inizia con Benjamin Netanyahu, ma dal momento in cui gli ebrei-sionisti si sono imposti nei territori della Palestina storica con il benestare e il finanziamento occidentale.

Le violenze contro i civili di Gaza, gli arresti arbitrari senza capi d’accusa in Cisgiordania, le discriminazioni e l’apartheid non sono diretta emanazione della politica di Netanyahu.

Netanyahu e la sua politica sono diretta emanazione della mentalità razzista  radicata nella maggioranza dei coloni israeliani.

Il governo in carica sta cavalcando l’onda di un modo di sentire diffuso dando attuazione a ciò che la maggioranza degli israeliani si aspetta che faccia.

Netanyahu, Ben Gvir e gli altri sono in realtà il prodotto del razzismo di cui si nutre la società israeliana, su tali presupposti di sopraffazione e odio razziale hanno fondato le loro carriere politiche.

Altrettanto irrealistica è la soluzione dei due stati, se non altro perché gli stessi coloni e loro rappresentanti politici si sono opposti nettamente ad una possibilità di questo tipo, basti pensare che gli insediamenti coloniali israeliani continuano a proliferare a ridosso dei territori palestinesi, proprio con l’intento di creare un ostacolo materiale all’attuazione futura della soluzione dei due stati.

L’attuale status quo di Israele è incompatibile con qualsivoglia principio di giustizia ed equità, non basta solo far finta di indignarsi davanti alle violenze sistematiche perpetrate a Gaza, quando si è incapaci di prendere posizione netta contro la più grande ingiustizia politica, sociale ed umana che il popolo palestinese da 75 anni sopporta sulle proprie spalle.

Non basta alleggerirsi la coscienza con frasi di circostanza per poi restare arroccati ad una mentalità rigidamente imperialista, subdolamente coloniale e suprematista che pretende d’applicare ad altre culture e civiltà il proprio sistema di convinzioni e il medesimo metro di misura, stabilendo su tali basi se accordare o meno pieno sostegno ad un popolo nella sua lotta contro abusi e sopraffazioni.

Se il popolo oppresso è distante dal nostro modo di sentire per etnia, tradizioni, usi e costumi, le atrocità che subisce diventano tutto sommato poca cosa. Come se un popolo distante, non solo geograficamente, ma soprattutto etnicamente, venisse disumanizzato per lenire così i nostri sensi di colpa, per permetterci di voltare le spalle senza scompensi psicologici.

Se l’oppressore è alleato degli USA e della NATO e quindi in linea con lo schieramento atlantista, le oppressioni diventano più leggere e preferiamo chiudere in occhio.

Anche davanti a oltre 30.000 vittime sacrificate in soli cinque mesi all’altare degli interessi di una realtà statale artificiale.

Disumanizzare un essere umano o un popolo intero per non vedere attraverso gli occhi dell’anima le sofferenze del prossimo, per crearsi un’attenuante all’inerzia morale e all’incapacità di non essere neutrali davanti alle tragedie storiche quando le vediamo consumarsi nell’epoca di cui, volenti o nolenti, siamo parte, questa è la più grande disfatta dell’umanità.

Io non voglio far parte di questa umanità portatrice di una morale che si attiva solo selettivamente.

Io non voglio essere uno dei tanti testimoni complici di un’epoca in declino che si autoalimenta di ipocrisia e falsa morale.

Non voglio essere una dei tanti liberali che dall’alto delle presunte conquiste democratiche della civiltà occidentale pretende di sentirsi sempre nel giusto senza mai mettere in discussione la realtà precostituita, che si tratti di Israele o di qualsiasi altro assetto politico-sociale fondato su ingiustizie e soprusi contro chi è più debole e indifeso.

Non voglio essere parte di questa civiltà occidentale che per “sentirsi più sicura” costruisce barriere e muri contro chi anela solo un minimo di considerazione e sogna di essere visto come un essere umano.

Voglio solo essere parte di un’umanità che non conosce confini, colori, barriere e bandiere.

Non voglio essere figlia della realtà costituita e di uno status quo ineluttabile, anche se profondamente ingiusto, ma di un’utopia che guardi oltre ciò che è dato e precostituito.

Un’utopia che nasce dalla considerazione che ciò che riteniamo giusto, perché così ci hanno insegnato, potrebbe essere in realtà ingiusto per il prossimo e per noi stessi, in quanto percorrendo questa strada della presunzione morale, continuano a crogiolarci nell’idea dogmatica di trovarci sempre dalla parte giusta del mondo e della storia, quando in realtà ci stiamo solo rendendo complici del male radicale.

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