Il paradosso delle prigioni israeliane: dal truffatore di Tinder ai bambini palestinesi

prigioni israeliane

Alla notizia della reclusione ridotta dell’uomo noto come il “truffatore di Tinder”, viene da chiedersi dove sia l’imparzialità nelle prigioni israeliane, in cui persino i bambini palestinesi restano chiusi per anni.

Dopo solo cinque mesi, infatti, l’israeliano Shimon Hayut (questo il suo vero nome), accusato di aver truffato molte donne per una cifra stimata di 10 milioni di dollari, è stato rilasciato. Dall’altro lato, nelle prigioni israeliane i detenuti palestinesi subiscono trattamenti assolutamente non equi e talvolta disumani, bambini compresi, che spesso vengono arrestati per un semplice lancio di un sasso. Emerge così il paradosso tra le due esperienze, da anni oggetto di discussioni dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani.

Il truffatore di Tinder e la sua esigua pena

Si fingeva il figlio di un magnate dei diamanti russo-israeliano: Simon Leviev è la dimostrazione di come le prigioni israeliane funzionino al contrario.
La vicenda è stata ampiamente raccontata nel documentario di Netflix The Tinder Swindler, uscito a inizio febbraio di quest’anno. Shimon Hayut, un cittadino israeliano, ha cambiato nome associandosi al magnate Lev Leviev, dal patrimonio stimato di 1,5 miliardi di dollari. E così è iniziata la mirabolante storia di Simon Leviev, soprannominato poi il “truffatore di Tinder” in quanto ha ingannato diverse donne grazie all’applicazione di incontri. Fingendosi ricco portava avanti azioni fraudolente: spingeva le donne a prestargli soldi per poi sparire, lasciando le vittime indebitate.

Scoperte le sue azioni nel 2019, l’uomo è stato incarcerato nelle prigioni israeliane con accuse di frode risalenti anche al 2011. Dei 15 mesi di reclusione previsti dalla condanna, però, Shimon ne ha scontati solo cinque, uscendo di prigione per buona condotta. La sua pena detentiva risulta così essere anni luce dal trattamento che devono affrontare i carcerati palestinesi, che per molto meno vengono tenuti in reclusione per anni, spesso anche senza processo.
Dunque, quanto pesa nella condanna la propria nazionalità?

Le condizioni nelle prigioni israeliane

La questione tra Israele e Palestina sembra non aver fine. Da anni le autorità israeliane portano avanti abusi e violenze inauditi nei confronti dei palestinesi, un popolo che ormai vive nelle dinamiche di un vero apartheid contemporaneo.
Israele fa di tutto per mostrarsi al resto del mondo come uno stato democratico, ma la realtà è ben diversa, costruita su estremismi e azioni unilaterali delle forze israeliane. In un comunicato stampa dello scorso novembre, l’UNRWA, agenzia dell’ONU, è arrivata a richiedere la sospensione dell’utilizzo di munizioni reali nei confronti di civili e bambini palestinesi, invocando il loro diritto alla vita.

Tutto questo si riflette nelle condizioni dei detenuti nelle prigioni israeliane. Nel sistema di Israele, il tasso di condanna degli imputati palestinesi è del 90%; ciò significa che le possibilità di scampare all’incarcerazione, anche per crimini minori, è praticamente nulla.
Dai sei detenuti che erano riusciti ad evadere dal carcere di Gilboa nel settembre 2021 sono pervenute testimonianze sulle pratiche violente portate avanti nei centri di detenzione. Si parla di abusi fisici e mentali che sfociano nella tortura, come la privazione del sonno, del cibo e delle cure mediche dopo le percosse ricevute durante gli interrogatori. Interrogatori in cui i detenuti erano stati completamente spogliati, lasciati così, per ore.
Pratiche che mirano a spezzare lo spirito dei prigionieri e del paese al quale appartengono, più che a punirli equamente per i loro crimini.

Per non parlare poi delle innumerevoli morti che sono avvenute dall’inizio dell’occupazione militare. Nelle carceri non è inusuale la morte di un detenuto per mano delle forze israeliane o perché lasciato morire senza assistenza medica. Nel 2017, a cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni, circa 200 prigionieri erano già periti in queste circostanze.

Detenzione amministrativa e scioperi della fame

La cosiddetta detenzione amministrativa è una pratica diffusa nei paesi mediorientali, e Israele non è da meno. Questa prevede l’incarcerazione di un deputato senza sottoporlo prima a processo, a tempo potenzialmente illimitato; Israele per fare ciò si appella al suo Mandatory Emergency Law Act del 1945. Sebbene per il diritto internazionale sia ritenuta illegale, nelle prigioni israeliane la percentuale di palestinesi reclusi in questo modo è alta, e comprende molti bambini. A fine 2021, dei circa 5mila prigionieri “politici” palestinesi un decimo era detenuto senza processo.

Per combattere questa pratica, nelle prigioni israeliane è diventato comune mettere in atto degli scioperi della fame, da un singolo detenuto a gruppi di centinaia di persone. L’ultimo caso eclatante è quello di Hisham Abu Hawash, detenuto amministrativo che per 141 giorni ha portato avanti il suo sciopero della fame. A gennaio l’uomo è stato portato all’ospedale in gravi condizioni, riuscendo ad ottenere non solo la sospensione del suo ordine d’arresto, ma anche il suo rilascio, che dovrebbe avvenire il 26 febbraio.

La situazione dei minori delle prigioni israeliane

In questo contesto di violenze e abusi di potere, purtroppo i bambini palestinesi non vi si sottraggono. Israele, infatti, è l’unico paese al mondo che processa regolarmente i minori nei tribunali militari. Questo accade nonostante il paese abbia ratificato la Convenzione dei diritti del bambino nel 1991, che prevede la detenzione dei minori solo in casi limite e per poco tempo. Ogni anno vengono arrestati e processati – se non in detenzione amministrativa – mediamente 600 ragazzi. Le accuse? Spesso si tratta di un semplice lancio di una pietra, l’essersi difesi o l’aver mancato di rispetto a un soldato israeliano; le accuse di incitamento, infatti, sono le più comuni.

Questi ragazzi vengono presi, bendati e portati scalzi nelle prigioni israeliane, dove vengono interrogati come degli adulti per “crimini” di cui nemmeno sono consapevoli. I trattamenti che gli vengono riservati sono simili a quelli dei loro connazionali più grandi: umiliazioni, minacce, violenze sessuali, percosse che a volte che si rivelano mortali. Comune è anche la pratica del cosiddetto “ingabbiamento pubblico”, per cui i bambini vengono tenuti per lunghi periodi di tempo in gabbie all’esterno.

Minorenni incarcerati con accuse inconsistenti, costretti a perdere spesso anni interi di vita, uscendone da adulti. Molti sono stati i volti di bambini palestinesi che le proprie famiglie non hanno più potuto vedere, nemmeno dalle salme. Molti altri sono stati i volti simbolo di questo fenomeno che viola ogni accordo internazionale. Ricordiamo per esempio Ahed Tamimi, sedicenne che nel 2018 è diventata l’icona della resistenza palestinese. Di storie simili, però, se ne potrebbero raccontare tante.

Da anni le organizzazioni internazionali si battono per mettere fine a questa politica del terrore portata avanti dalle autorità israeliane sui palestinesi. In particolare, per quanto riguarda i bambini, Save the Children è in prima linea a battersi per i loro diritti, insieme alla Società dei Prigionieri Palestinesi e il Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele.
I bambini, intanto, cercano di fare la loro parte per liberare i coetanei dalle prigioni israeliane, organizzando veglie e lasciando le loro testimonianze ai giornalisti.

Giulia Girardello

Exit mobile version