Deep sea mining in Norvegia: il paradosso estrattivo che sfida la crisi climatica

deep sea mining in Norvegia e crisi climatica

Lo scorso martedì, il 9 gennaio, il parlamento norvegese ha approvato una legge sull’estrazione mineraria dei fondali marini limitrofi allo Stato e in acque internazionali, per garantire un maggior commercio e profitto industriale a livello globale. Il progetto estrattivista mira ad accumulare materie prime come il litio, lo scandio, cobalto e petrolio. Il deep sea mining in Norvegia è attualmente altamente contestato per le serie conseguenze che, di certo, provocherà all’ambiente. 

La tecnica di perforazione e raschiamento dei fondali

La nuova legge sul deep Sea mining in Norvegia è stata proposta nel giugno dello scorso anno ma è stata definitivamente discussa e approvata quest’ultima settimana. Il progetto prevede lo sfruttamento dei fondali norvegesi di un’area enorme che si estende tra il Mare di Barents e la Groenlandia. Quest’area è compresa nelle acque territoriali del paese, di conseguenza non ci sarà alcuna autorizzazione da organi internazionali, proprio perché l’interesse è all’interno della zona esclusiva.

Il deep sea mining in Norvegia, il primo stato al mondo ad aver approvato il progetto, prevede quindi lo sfruttamento del fondale oceanico attraverso tecniche di raschiamento e perforazione del territorio: in questo modo, il materiale prelevato sarà raccolto all’interno di tubi che porteranno le materie in superficie su grandi navi. La decisione è stata approvata con 80 voti favorevoli su 100 e prevede un raschiamento del terreno che si estende in un’area di circa 281 mila chilometri quadrati. 

L’intera superficie è già stata divisa in aree di interesse, più ridotte, in base alle materie prime. Il raschiamento può arrivare fino a 5.000 metri di profondità e in seguito le materie prime saranno portate sulle navi attraverso de tubi. Ogni pronostico è ovviamente molto vicino alla realtà: ad ogni raschiamento corrisponde una riduzione della vita nei fondali. Il deep sea mining in Norvegia sta rendendo lo stato scandinavo ipocrita e incoerente, attraverso il paradosso della sostenibilità.



Le voci contro il deep sea mining in Norvegia

Molte sono state le proteste circa questa approvazione parlamentare, sia a livello locale che internazionale. Greenpeace e molte altre organizzazioni si sono esposte immediatamente, sostenendo che la Norvegia, più di tutti, è responsabile della distruzione del patrimonio marittimo. Una delle parole più incisive è stata presa dall’EASAC – il consiglio consultivo scientifico delle accademie europee – che ha pubblicato un documento sui danni irreparabili all’ecosistema. 

I dubbi sollevati dall’ente sul deep sea mining in Norvegia riguardano, oltre l’attività estrattiva in sé, anche il procedimento di estrazione, ancora ignota al governo norvegese. L’estrazione sottomarina è stata infatti presentato come un’attività sicura e sostenibile, ma le modalità specifiche non sono ancora state chiarite. Il parlamento e il governo scandinavo stanno ancora lavorando alla discussione della legge, ma ciò che è certo è che, in quanto approvata, la legge ben presto darà la possibilità di avviare le concessioni per il business marittimo attraverso le licenze. 

Lo sfruttamento del territorio, nel nome di un’industria sostenibile, è paradossale proprio perché distrugge ogni forma di vita presente nelle acque marine. Le conseguenze sono abbastanza prevedibili, dato che siamo nel bel mezzo di una crisi climatica, ormai difficile da recuperare.

Il paradosso del deep sea mining in Norvegia si può notare anche dalle scorie e dai sedimenti delle navi che vengono rilasciate nelle acque: è facile capire come sia molto più ingente l’inquinamento che la sostenibilità del progetto stesso. Essendo causa della crisi ambientale, anche il deep Sea mining in Norvegia produrrà ondate di calore, che saranno assorbite almeno al 90% dalle acque oceaniche. 

Le mancate regolamentazioni sul deep Sea mining e la parola degli scienziati

I paesi maggiormente industrializzati, nel momento in cui soffrono per un mancato profitto industriale, cercano nuove forme di approvvigionamento: i fondali oceanici sono una delle opzioni a cui si ricorre in caso di crisi. Ad oggi, non esiste una vera e propria regolamentazione europea o mondiale sull’estrattivismo. Gli stati hanno sempre avuto punti divergenti: chi crede che sia importante sfruttare il territorio e chi invece considera i fondali marini patrimonio globale.

Da quest’ultima voce è nato il progetto ISA – l’autorità internazionale dei fondali marini. Questo ente però è stato pensato non per vietare l’estrazione di materie prime, ma per regolarne l’attività attraverso ricerche sul territorio e garanzie del benessere globale. Gli studi dell’ISA hanno riguardato i fondali degli oceani Indiano, Atlantico e Pacifico. 

La debole legislazione internazionale contro le forti volontà nazionali

Le posizioni dei paesi sono tutt’oggi, nonostante la crisi climatica in cui siamo coinvolti, ancora scoordinate e varie tra di loro. Ogniqualvolta ci sia bisogno di profitto e aumento di produzione si ricorre al deep Sea mining. L’ISA non è mai stato in grado di concludere un accordo o stabilire una normativa sulla regolamentazione del processo estrattivista, il che lo ha reso un ente piuttosto aggirabile come nel caso del deep sea mining in Norvegia, che ha visto la semplice procedura nazionale. C’è da aggiungere inoltre che la Norvegia non aderisce all’Unione Europea, e questo fatto la rende ancora più libera dalle poche direttive comunitarie sull’ambiente.

Molti paesi, tra cui la Francia e la Cina, si sono opposti fermamente all’attività, nel nome della protezione marina. Anche la comunità europea, nonostante non abbia mai varato una legge specifica, ha richiesto, con una risoluzione, la moratoria internazionale di questo tipo di attività. Alcuni altri stati, tra cui la Norvegia e il Regno Unito, sono invece favorevoli alle concessioni di licenza per l’estrazione. 

Cosa ne sarà del mondo?

 La comunità scientifica sta manifestando una grande preoccupazione rispetto a quelle che saranno le conseguenze climatiche: molti scienziati hanno infatti chiesto la sospensione definitiva di questo programma. Molti studi hanno dimostrato quanto la biodiversità marina sia diminuita nelle aree centrali e adiacenti al processo estrattivo. In un orrido contesto di guerre e scontri tra civiltà, economie e industrie belliche che reggono interi Stati, e inquinamenti gratuiti nel nome dello sviluppo tecnologico e chimico, il deep sea mining in Norvegia è sicuramente la prosecuzione di una vera e propria catastrofe naturale. Intanto, l’intera comunità internazionale resta a guardare la fine del mondo nel nome dello sfruttamento ambientale e del profitto economico. 

Lucrezia Agliani

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