In epoca contemporanea, i crescenti nazionalismi continuano a diffondere una retorica razzista, a difesa di un’utopica identità nazionale. Il vecchio concetto di “razza” è però stato sostituito da quello di “cultura”, camuffando il neo-razzismo culturale sotto le spoglie del discorso identitario.
In epoca moderna abbiamo assistito ad una crescente attenzione rivolta al discorso identitario. La scoperta dell’identità, vista come un problema e soprattutto come un compito, un dovere del cittadino, coincide con l’affermarsi dello Stato-nazione e con l’esigenza di creare un nuovo ordine. Il concetto di identità nazionale su cui si è formato lo Stato moderno è andato, tuttavia, modificandosi nel tempo. L’inziale discorso identitario, permeato dal concetto di “razza” in senso biologico, si è man mano appropriato di una retorica “culturalista”. L’identità culturale è divenuta così la nuova “razza”, la nuova discriminante che giustifica l’inconciliabilità tra il “noi” e gli “altri”, segnando la nascita del neo-razzismo culturale.
Lo Stato moderno e l’invenzione identitaria
L’identità nazionale come un qualcosa di omogeneo è stata promossa e costruita dallo e nello Stato moderno, di fronte all’esigenza di creare un nuovo ordine interno e di legittimare i confini territoriali. Come scrive Antonella Elisa Castronovo , infatti, lo Stato
funziona attraverso il controllo dei confini, la produzione del popolo, la costruzione dei cittadini. In tal senso, un passo fondamentale è rappresentato dal processo di delimitazione non solo geografica, ma anche culturale dello spazio entro il quale agisce la sovranità statale, che aspira così a raggiungere un’omogeneità interna.
Irriducibilmente diversi
Ed è al fine di preservare e consolidare questa omogeneità interna, che lo Stato-nazione si pone come obbiettivo quello di tracciare i confini tra il “noi” e il “loro”. Per preservare la presunta purezza del “noi”, costruisce lo spauracchio dell'”altro”. Questi fantomatici “loro”, seguendo la logica della retorica nazionalista, rappresentano una minaccia per l’identità nazionale, compromettendone i valori e la moralità.
Viene a crearsi così un’aurea di perenne pericolo, proveniente non solo dall’esterno, ma anche dall’interno dei confini stessi, che rischia di insinuarsi e distruggere la nostra integrità. Contro questo pericolo dobbiamo difenderci, o meglio, riprendendo le parole di Foucault, “dobbiamo difendere la società“.
Il discorso identitario diviene, pertanto, sia un’efficace arma di difesa che di attacco. Mentre da un lato rafforza quel sentimento di coesione interna, in nome di valori morali e tradizioni comuni, dall’altro rilega gli “altri” in una diversità inconciliabile. Le riflessioni che Foucault esponeva al tempo delle lezioni al Collège de France, rimangono tutt’ora attuali: assistiamo ad un’azione di “purificazione” a livello statale
(…) a partire da una razza posta come la vera e sola, quella che detiene il potere ed è titolare della norma, contro quelli che deviano da questa norma. Si assiste allora all’apparizione paradossale di un razzismo di Stato: di un razzismo che la società esercita contro sé stessa (…) di un razzismo interno, di una purificazione permanente.
Lo Stato si erge dunque a protettore della purezza e dell’integrità della “razza” dominante. In questo modo, può esercitare un’azione normalizzatrice sulla società: screditando alla base la legittimità di un’altra “razza”, riesce così a frenare la possibilità di qualsiasi rivendicazione o appello rivoluzionario.
Dalla “razza” alla “cultura”
Traducendo le parole del filosofo in chiave contemporanea, possiamo facilmente tradurre il termine “razza” con quello di “cultura” o “identità”. In epoca moderna, infatti, il concetto di identità culturale sostituisce la vecchia idea di “razza genetica”. Lasciandosi alla spalle quel carico di pesantezza e condanna associato alla razza, il discorso culturalista si mostra, in apparenza, più innocente.
Nella narrazione dei crescenti nazionalismi e populismi il termine “cultura” appare spesso, distorcendo però il suo vero significato. Invece che indicare un concetto fluido, formato da mille sfaccettature e in costante mutamento grazie alle interazioni con gli altri, al termine “cultura” si associano erroneamente parole quali “radici”, “autoctonia”, “etnia, “natura”.
In questa visione, identità e cultura sono considerate attributi naturali e atavici, che designano delle caratteristiche specifiche, ritenute immutabili, non solo del singolo, ma dell’intera comunità a cui appartiene. L’identità dell’individuo viene così vincolata a quella della comunità, del gruppo di provenienza culturalmente definito. Avviene quella che Amartya Sen definisce “un’azione di riduzionismo culturale dell’affiliazione unica”, che confina l’appartenenza di una persona a un’identità collettiva e a-storica.
L’identità culturale così definita, finisce per imprigionare l’individuo, privandolo della capacità d’intervenire sul proprio processo di costruzione identitaria. La cultura diviene il fattore discriminante per eccellenza e la proclamata inconciliabilità culturale sancisce la distanza tra il “noi” e gli “altri”.
Il neo-razzismo culturale
In nome di questa presunta “cultura” si tracciano i confini di appartenenza a gruppi specifici, contraddistinti da precisi caratteri morali e comportamentali. Si pensi ad esempio alle persone rom: il singolo, agli occhi della società, perde la propria individualità e diventa “zingaro”. Alla persona rom viene associato un carico di stigmi e pregiudizi, i quali negano all’individuo la sua personalità e umanità.
Si compiono in questo modo quei processi di classificazione e separazione caratteristici del razzismo. Questi assume così una nuova forma, quella del neo-razzismo culturale, senza perdere il suo carattere pervasivo e sistematico.
Come direbbe l’antropologo Marco Aime, al giorno d’oggi ci troviamo
In un epoca post-razziale (ma non post-razzista), caratterizzata da nuove dinamiche di inclusione/esclusione che si reggono sulla base della cultura e della provenienza.
Classificare, separare, escludere: razzismi e identità
Tra “noi” e gli “altri”
Le minoranze, gli stranieri, i diversi ci vengono presentati come portatori di una differenza culturale inconciliabile e irrisolvibile. Si nega loro la possibilità di autodeterminare la propria identità, nascondendo l’artificioso processo di costruzione identitaria, che porta alla creazione del “noi” e del “loro”.
Il neo-razzismo culturale ripropone pertanto la questione che trova la sua genesi nella nascita dello Stato-nazione. L’esigenza di definire il “noi” e gli “altri”, secondo criteri adesso determinati da caratteri culturali. Bisogna difendere l’ingroup nella sua integrità e confinare gli outsiders, onde evitare possibili “contaminazioni” dovute alla loro presenza. La presunta differenza culturale diviene sinonimo di inferiorità, giustificando gli imperativi di “separare” ed “escludere”.
Grazie a questo sistema di esclusioni e dominazioni, vincolate tra loro, è avvenuta la progressiva estromissione delle comunità “straniere” e delle “culture” diverse. Come sostiene il filosofo Etienne Balibar, la crescente esclusione di tali comunità e il processo di gerarchizzazione all’interno della società sono stati normalizzati, in nome di un’inconciliabile diversità culturale.
Dietro questo ragionamento si nasconde la paura di ammettere che, in fondo, siamo fatti di diversi prestiti e molteplici affiliazioni. Riconoscerlo significa però decostruire quella presunta unità a fatica raggiunta, che ci trasmette un senso di appartenenza e forza. Piuttosto che mettere in discussione noi stessi, preferiamo bandire chiunque non appartenga a quella che crediamo essere la nostra “cultura”. Al posto di abbracciare la fluidità dei confini, li rimarchiamo.
Ed è così che l’identità, citando le famose parole di Amartya Sen:
Al posto di essere una fonte di ricchezza e calore, diviene una forma di violenza e terrore.
Identità e violenza
Eva Moriconi