Luigi Di Maio e l’arte della finzione: il questito è continuare a fingere che non sia arrivato il momento di cambiare, oppure, affrontarlo?
Al di là della corsa interna a posizionarsi, ieri stamattina, dopo l’articolo del FQ che racconta il retroscena (peraltro già smentito ma verosimilissimo se viene dal FattoQ) delle imminenti dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico del movimento, la crisi del M5S -al netto delle contingenze: la leadership di Di Maio e i suoi rapporti con Conte (lascerei fuori la politica estera!), le alleanze politiche necessarie davanti alla prova di governo prima con la Lega poi il PD che hanno provocato una perdita di consensi vertiginosa, dell’emorragia di uomini e donne dai gruppi parlamentari, degli scandali sulle mancate restituzioni dei rimborsi, a cui si aggiungono piattaforma Rousseau e temi satellite- è una crisi fisiologica. Una crisi che origina nella contraddizione in termini, impossibile da sanare, di essere nati come corpo estraneo al sistema, con pulsioni ribellistiche, di essere cioè ontologicamente antisistema e non riuscire a mantenere la propria identità quando lo si è diventati, quando si è diventati sistema.
Che prevalga l’area riformista, quella moderata/democristiana, quella movimentista/ribellista, si dimetta o rimanga Di Maio, io credo che il vero nodo sia quello. Non che un leader valga davvero l’altro, nemmeno nel Movimento dell’uno vale uno, nato senza gerarchie o con la vocazione di non averne, ma perché inevitabilmente sanare quella contraddizione significa in qualche modo essere altro, essere altra cosa da ciò che il M5S è stato da quando Casaleggio e Grillo lo hanno immaginato e poi creato. Si tratta di uccidere il padre. O il figlio, forse. Ma temo qualcuno vada inesorabilmente “ucciso”. Il tema è continuare a fingere che non sia arrivato quel momento, come fa Di Maio, oppure affrontarlo.
Nicoletta Agostino