Il “mostro” e la “mostrificazione dell’altro”

The Witcher e Carnival Row ci ricordano che il sonno della ragione genera mostri simili alla figura mascherata e con le corna in questa foto in bianco e nero.

Dalla mitologia greca alla psicologia sociale il concetto di “mostro” e il processo di “mostrificazione dell’altro” sono stati usati per nominare e definire la categoria di “altro” e di “diverso”

Partendo dall’etimo del termine “mostro” ci proponiamo di comprendere cosa intendiamo quando parliamo di “mostrificazione dell’altro”. Innanzitutto, monstrum viene dal latino monere che significa “ammonire”, “richiamare alla memoria”. Indica l’apparizione di qualcosa di straordinario, di eccezionale che rinvia a un “ammonimento” divino. “Mostruoso”, come diceva il grammatico Festo nel II secolo d.C., «è ciò che travalica l’ordine naturale delle cose, come un serpente con i piedi, un uccello con quattro ali, un uomo con due teste». Il mostruoso si riferisce a figure presenti nella tradizione culturale dell’antica Grecia che hanno un ruolo preciso e un’identità definita, ma che sono anche l’incarnazione di incubi o sogni per ogni uomo di ogni tempo. Per questo continuano a vivere ancora oggi trasmutandosi in forme nuove.



Le caratteristiche fondamentali del “mostro”

Una delle caratteristiche fondamentali dei mostri è l’essere ibrido. Il mostruoso è ciò che sfugge alle leggi della natura e alle regole della ragione. Spesso mescola alla forma umana quella divina e bestiale. Il mostro si sottrae a ogni definizione ed è spesso indescrivibile. La sua forma è inafferrabile, indicibile. È l’incarnazione di un paradosso. Perciò, il mostro è anche un enigma, e non a caso i mostri sono appunto custodi di enigmi, come la Sfinge, o abitano luoghi simili a rompicapi, come il Minotauro nel Labirinto. Le lotte degli eroi contro i mostri sono descritte nei miti attraverso scene che hanno il valore allegorico di una sfida del Bene contro il Male, in cui il mostro ibrido è caratterizzato da una natura satanica. L’ibrido non è però l’unica forma attraverso cui si dà il mostruoso. L’abnorme e l’insolito sono altrettanti attributi della mostruosità: un’altra forma del mostruoso è dunque la dismisura. Mostruoso può essere, quindi, ciò che è troppo grande o troppo piccolo, come il gigante o il folletto. A volte il mostro gigante può essere antropomorfo. La mitologia conosce molti giganti. Gerione aveva tre corpi e tre teste. Oto ed Efialte, figli del dio del mare Posidone, tentarono la scalata all’Olimpo mettendo una montagna sopra un’altra per raggiungere la sede degli dei. Ulisse affronta terribili giganti tra cui i Ciclopi.

La “mostrificazione dell’altro” come processo di deumanizzazione

I mostri del mito continuano a vivere perché ci sono sempre nuovi scrittori che ne riscrivono le storie. Gli archetipi delle narrazioni antiche sopravvivono oggi attraverso l’immaginazione di nuove storie, ma anche attraverso il loro riuso nella propaganda politica. Il mostro mitologico ancora oggi si reincarna nell’altro, nel diverso. Ma cosa è la “mostrificazione dell’altro”? Come avviene e cosa vuol dire “mostrificare”? “Mostrificare” vuol dire, innanzitutto, introdurre una asimmetria tra chi gode di tratti umani e chi ne è considerato privo o carente. La “mostrificazione dell’altro” è un processo di deumanizzazione, di sottrazione dell’umanità dell’altro. La mostrificazione, cioè la deumanizzazione dell’altro può assumere molte facce. Tutto quello che la psicologia sociale è stato in grado di dire in questi anni riguarda la società occidentale. In particolare, trattare l’altro come animale è stata la forma prioritaria di relazione con l’altro che si è affermata nella nostra cultura. Si è trattato di mettere l’altro fuori dalla condizione umana. Poiché la facoltà prototipica dell’umanità è la razionalità, la civiltà occidentale ha cercato sempre di sminuire l’altro considerandolo un essere senza ragione. La presentazione mostruosa è servita ad alimentare nel tempo una narrazione incentrata sull’odio e sull’autoproclamazione di superiorità di se stessi sull’altro. A partire dai barbari nella civiltà classica e passando per la donna che era vista come meno razionale e meno capace dell’uomo. Senza dimenticare che la mostrificazione dell’alterità degli “uomini selvaggi” nel ‘500 durante la fase di colonizzazione dell’America servì a legittimare il genocidio e l’espropriazione dei territori indigeni da parte degli occidentali. Inoltre, il fenomeno ha riguardato nel tempo anche le classi sociali inferiori, mentre di recente si è parlato di mostrificazione del nemico nel conflitto russo-ucraino. La parola “orchi” (орки), infatti, è stata usata per indicare i soldati russi, entrando nell’uso comune dei civili e dei media ucraini.

“Mostro” è anche il mio “simile”

L’analisi che abbiamo condotto non basta a cogliere tutte le sfumature attraverso cui il mostruoso sopravvive nella nostra cultura e società. Agli esempi fatti in precedenza aggiungiamo che lo psicanalista e drammaturgo italiano Sandro Gindro sosteneva che un atteggiamento xenofobo originasse già nei confronti di un nuovo arrivato nella famiglia, ovvero del fratello o sorella cadetta. Non è solo lo smisurato bisogno di amore e protezione a rendere meno tollerante la nuova presenza nella famiglia, ma secondo Gindro l’insofferenza si può originare anche rispetto a ciò che ci è simile, a ciò che è a noi vicino. In qualche modo, il nuovo o la nuova arrivata rappresenterebbero il perturbante, così come lo intese Freud. Il perturbante risiederebbe, in questo caso, nella figura di un individuo appartenente al mio stesso gruppo familiare che, nonostante la sua familiarità, risulta essere per me non-familiare, estraneo, e per il suo modo diverso di stare al mondo, a me incomprensibile. Da sempre, quindi, l’altro, cioè il nemico, l’estraneo, il lontano, è stato identificato come “mostro”, come “inumano”. Ma posso avvertire come “mostruoso” anche il mio vicino, l’appartenente a un mio stesso gruppo familiare o sociale. Pertanto, a partire dal concetto di mostruoso dobbiamo interrogarci sulle relazioni umane da cui sentiamo provenire quel “richiamo alla memoria” di qualcosa di eccezionale o straordinario, senza per questo imporci sull’altro o alimentare un odio che deriva dall’incomprensione e dalla sua inafferrabilità. Questo meccanismo di “mostrificazione” e deumanizzazione è certamente autodistruttivo. Il disprezzo e la disistima per l’altro non fanno che accumulare un clima di odio, di tensione e di paura fra tutti i popoli. Avremmo bisogno, al contrario, di più sforzi per ricercare insieme il senso di una nuova umanità e di una cooperazione sociale che sia universale, proprio esplorando il lato seduttivo dell’estraneità senza pregiudizi o sopraffazioni.

 

Carmen della Porta

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