L’accordo tra Italia e Albania, il cosiddetto “modello Albania”, ha avuto un inizio tutt’altro che positivo. Al momento dello sbarco della nave italiana Libra nel porto di Shengjin, tra i 16 migranti a bordo sono stati trovati due minori e due persone vulnerabili, che secondo gli accordi non avrebbero dovuto essere trasferiti. Poco dopo il loro arrivo in Albania, questi migranti sono stati rispediti in Italia a bordo di una motovedetta, segnando così un evidente, e più concreto, fallimento del patto tra il governo italiano e quello albanese. Tutti gli altri sintomi di un fallimento politico e sociale si trovano a priori, già alla base dell’idea stessa.
La decisione dell’Italia di stringere accordi con l’Albania per la costruzione dei Centri di Rimpatrio per Migranti – o, come chiamati dai movimenti in protesta “lager di Stato” – ha portato ad una messa in discussione, già avviata, sulla concezione dei diritti umani e il rispetto, sia formale sia sostanziale, dei dogmi fondamentali dello Stato di diritto. Un’ondata di protese, dentro e fuori le mura di queste carceri a cielo aperto, sono in atto da anni ormai, sopratutto nelle regioni più complesse d’Italia: dalle semplici rivolte ad autolesionismi, dai tentativi di evasione alla solidarietà dei movimenti dal basso che, ogni giorno, lottano per abbattere quelle mura.
L’arrivo dei migranti e la lunga attesa: l’impresa per raggiungere la Fortezza Europa
La nave Libra è approdata a Shengjin alle otto del mattino, ma i migranti a bordo sono stati costretti ad attendere per diverse ore prima di poter scendere. Dopo tre giorni di navigazione da Lampedusa, la situazione si è fatta ulteriormente complessa. Quando finalmente i migranti hanno messo piede a terra, sono stati immediatamente portati nel centro di accoglienza di Shengjin, che però è sotto giurisdizione italiana: questo l’inizio del modello Albania, il progetto di esternalizzazione delle frontiere che l’Italia ha deciso di intraprendere con il paese di Edi Rama. Nel frattempo, fuori dal porto, gli attivisti protestavano contro l’accordo Italia-Albania, accusando i governi di entrambi i Paesi di violare i diritti umani.
Ieri, mercoledì 16 ottobre, i primi sedici migranti sono arrivati nel porto di Schengjin, dove si trova uno dei due hotspot inaugurato la scorsa settimana, dove sono stati sottoposti a identificazioni, ispezioni e ulteriori visite mediche. Da ieri, sono scattate anche le 48 ore di tempo entro le quali il Tribunale di Roma dovrà convalidare o meno il provvedimento di fermo amministrativo.
La tensione è stata palpabile durante la giornata. Un gruppo di attivisti ha messo in scena una protesta simbolica con un cartonato raffigurante il premier italiano Giorgia Meloni e quello albanese Edi Rama vestiti da carcerieri, sottolineando come l’Albania stia diventando, secondo loro, una “prigione” per migranti a vantaggio dell’Italia. Le critiche si concentrano soprattutto sul fatto che i centri di accoglienza siano sotto la giurisdizione italiana, creando una “zona grigia” dal punto di vista legale e giuridico.
Abbastanza problematico è infatti il progetto dell’Italia di esternalizzare le sue frontiere geografiche e giurisdizionali – che, come nel caso del modello Albania si spingono oltre le frontiere della comunità europea -, come sta facendo con la Tunisia. Questo, sta permettendo al Governo di Giorgia Meloni di aumentare la forza delle sue decisioni politiche e l’influenza in terra straniera.
Ritardi nelle operazioni e violazioni dei diritti
Le procedure di identificazione e controllo sanitario dei migranti, che avrebbero dovuto concludersi in otto ore, sono state prolungate oltre le undici ore, senza che alcun progresso fosse fatto. Le lunghe attese e l’incertezza sulla gestione dei migranti, durante il primo giorno del modello Albania, sollevano dubbi su come il sistema possa reggere quando il numero di arrivi aumenterà significativamente.
Il fallimento del modello Albania è stato ancora più evidente a causa del minimo numero di persone migranti – quel “carico residuale” di cui ha molto parlato il Ministro Piantedosi. Le persone deportate rientravano in quelle categorie definite dal governo italiano come “non vulnerabili”: sono tutti uomini adulti dall’Egitto e dal Bangladesh, ma ancora non sono state ben chiarite le condizioni necessarie affinché una persona possa essere definita vulnerabile o meno.
I migranti, oltre a subire sulla propria pelle un’evidente violazione dei diritti umani e una costante violenza da parte delle forze dell’ordine, che comprendono solo il linguaggio dell’odio e del denaro, vivono in una perpetua e straziante indeterminatezza e incertezza. Nonostante sia sempre più in voga la retorica della mela marcia e della divisione mediatica tra i buoni e i cattivi, come tra i sistemi punitivi ai nuovi modelli, il modello Albania è esattamente l’ennesima prova di una radicamento sempre più profondo delle radici del sistema razzista, xenofobo e dell’intolleranza che governa l’Italia.
Attraversare il Mediterraneo, senza quindi arrivare a toccare – fisicamente – le coste italiane, ora può essere già un primo dettaglio che può portare ad un rimpatrio diretto e repentino. I respingimenti sono stati infatti regolati nuovamente dal recente decreto flussi, che hanno messo in discussione le nuove regole di salvataggio in mare. In vista di nuovi e potenziali sviluppi, la Corte di Giustizia europea ha emesso una sentenza che critica aspramente il protocollo con la Tunisia.
Il problema del modello Albania tra questioni etiche, politiche e geopolitiche
La scelta di spostare i Centri di Permanenza per il Rimpatrio dall’Italia all’Albania e avviare la deportazione dei migranti ha generato numerose polemiche, soprattutto per quanto riguarda la trasparenza e il rispetto dei diritti umani. I CPR italiani sono stati spesso criticati per le condizioni disumane, e spostarli in Albania rischia di peggiorare la situazione, allontanandoli dai riflettori delle organizzazioni di tutela dei diritti umani e fornendo al governo meloniano un motivo in più per voltare le spalle su una delle più grandi torture di Stato.
L’accordo tra Italia e Albania solleva anche questioni etiche. Molti critici ritengono che dietro questo patto ci siano promesse di un’accelerazione del processo di integrazione dell’Albania nell’Unione Europea, il che mette in discussione la reale natura della collaborazione tra i due Paesi. L’operazione di delocalizzazione non è solo costosa ma anche moralmente discutibile, e rischia di creare una realtà in cui i diritti umani dei migranti vengono messi in secondo piano rispetto agli interessi geopolitici.
L’avvio del modello Albania è un ulteriore passo verso la limitazione del diritto d’asilo e il rallentamento, sia politico che amministrativo, delle procedure di migrazioni e richieste d’asilo. La nuova gestione delle prigioni a cielo aperto e dei migranti che ivi vivono è stato segnato da errori e ritardi, sollevando preoccupazioni sul futuro del progetto. Il governo italiano dovrà affrontare non solo le critiche interne ma anche quelle internazionali, mentre si continua a discutere sulla legittimità e l’efficacia di questa strategia.
Non sembra esserci un epilogo a queste torture: l’Italia ha deciso di puntare sulla detenzione amministrativa, limitare in ogni modo le libertà di manifestazione e di azione dei migranti e dei solo solidali – come i movimenti sociali e politici. L’obiettivo è quello di introdurre uno Stato di polizia sempre più accentuato, dove disumanità, repressione e omertà regnano sovrane, anticipando la decadenza di ogni valore umanitario.
Lucrezia Agliani