Il Minotauro: mito del frutto perverso dell’empietà di un re

Il Minotauro e il suo mito

Il Minotauro è un personaggio mitologico di cui tutti abbiamo sentito parlare. E, paradossalmente, la sua storia è così risaputa che spesso ne sfuggono proprio i dettagli più affascinanti. Com’è nato il Minotauro, dunque, cosa significava la sua presenza e perché ossessionava i Greci?

Il Minotauro è un personaggio del mito profondamente indicativo del pensiero morale antico. Il motivo è semplice: questa bestia semi-umana folle e assetata di sangue è un’incarnazione dell’oltraggio all’ordine delle cose. È, cioè, tutto ciò che non dovrebbe mai esistere. E lo è per una ragione specifica: non è un male casuale, bensì l’inevitabile conseguenza di un atto di hybris, di empietà contro gli Dei. Quella compiuta da Minosse, il sovrano di Creta, ai danni del dio Poseidone, che era venuto in aiuto del re e ne era poi stato offeso.




Minosse e Poseidone: la contesa che fece nascere il Minotauro

La vicenda della bestia inizia, in realtà, ben prima che il Minotauro nasca. Essa ha origine da un sovrano, il re di Creta Minosse, che sta affrontando un grave problema di politica interna. Egli, infatti, è asceso al trono non da figlio del precedente re, Asterio, ma da figlio di Zeus. Per questo motivo i suoi sudditi diffidano di lui e sono recalcitranti a riconoscere la sua autorità. Il re potrebbe, certo, ricorrere all’esercito o alla legge per imporsi, ma dubita che servirebbe. Finirebbe, teme, con l’essere ancora più odiato, inducendo il popolo di Creta a sollevarsi per deporlo. Allora che fare? Rivoltosi ai sacerdoti, ecco la soluzione: con un atto di umiltà, invocare l’aiuto degli Dei. Così Minosse, re in ginocchio, innalza la sua preghiera ai celesti. Ed è Poseidone ad ascoltare.

A Poseidone Minosse domanda un segno di riconoscimento. Qualcosa, qualunque cosa possa indicare senza ombra di dubbio la benevolenza che gli Dei nutrono verso il re. Questo, spera, indurrebbe i Cretesi a rispettare la sua autorità senza spargimento di sangue. L’ideale sarebbe che il dio mandasse a Minosse un toro, animale caro al suo popolo e simbolo dell’autorità del re. Al dio il sovrano lo sacrificherebbe subito, in segno di devozione e d’immensa gratitudine. Poseidone, lusingato, acconsente, facendo emergere dalle acque un magnifico toro bianco che lascia i Cretesi senza parole incedendo maestoso sulla spiaggia.

Il risultato voluto da Minosse è raggiunto. E la storia potrebbe anche concludersi con un lieto fine, se non ci si mettesse l’avidità. Perché Minosse, vedendo la bellezza del toro, lo vuole per sè, per arricchire le proprie mandrie. Perciò a Poseidone ne sacrifica un altro, tradendo il patto e offendendo moltissimo il dio.

La folle passione di Pasifae

Nel tradire per cupidigia il patto con Poseidone Minosse compie un atto di hybris gravissimo. Non è il genere di cose che nel mondo greco si passi liscia e, difatti, la reazione del dio non tarda ad arrivare.

Minosse, infatti, ha una moglie, la regina Pasifae. Costei, figlia della ninfa oceanina Perseide e della divinità solare Helios, è una buona moglie e gli ha già dato molti figli. E cioè Androgeo, Arianna, Acacallide, Catreo, Deucalione, Fedra, Glauco e Senodice. Ma a un certo punto Pasifae incomincia a cambiare. Gli occhi le si accendono di una luce sinistra e non ha più altro pensiero che non sia per il toro bianco di Posidone. Lo vuole, lo brama, non sa più farne a meno. E così costringe Dedalo, il geniale inventore rifugiatosi a Creta per sfuggire a un’accusa di omicidio, a costruire un marchingegno perverso. Un inganno che le permetta di realizzare quel desiderio mostruoso che l’ira del dio del mare le ha seminato nel cuore. Una vacca di legno, rivestita della pelle della vacca che il toro ama di più, nella quale Pasifae si nasconde. L’atto si compie: il toro di Poseidone feconda la regina di Creta, concependo il Minotauro.

E in questo modo il cerchio si chiude. L’oltraggio compiuto da Minosse in segreto diviene visibile a tutti, tra orrore e ridicolo, con il parto della regina. E magari fosse solo ridicolo; invece, in quanto conseguenza di una hybris duplice, questa creatura non può che essere una belva. Ossia un essere assetato di sangue, estremamente violento, pericoloso, difficilissimo da contenere. Un essere che, per la sicurezza propria e di quei sudditi che lo disprezzano, Minosse deve rinchiudere in un labirinto fatto costruire da Dedalo.

Teseo e il Minotauro: la fine della bestia

Per alcuni anni il Minotauro vive nella sua prigione a Cnosso, minaccia nutrita di criminali e sbandati e lasciata al suo destino. Poi, nella lontana città di Atene, in Attica, avviene qualcosa che cambia tutto. Androgeo, figlio di Minosse ospite ad Atene, nei giochi continua a stravincere, scatenando le ire dei giovani ateniesi e venendo ucciso da loro. Minosse, che ha soggiogato la città da tempo, per non raderla al suo esige un tributo di sangue. Sette fanciulli e sette fanciulle ogni anno devono essere spediti a Creta, in compensazione del torto fatto al sovrano e al suo popolo. La loro sorte è segnata: gettati nel labirinto, diventano l’orrido pasto della bestia.

Questo, almeno, finché il giovane figlio del re di Atene, l’eroe Teseo, non decide di prendere il posto di uno dei fanciulli. Il suo intento è quello di provare a uccidere il Minotauro. Ci riesce grazie all’aiuto di una delle figlie di Minosse, Arianna, che innamoratasi di lui gli dona una spada avvelenata per trafiggere il nemico. E una matassa di filo lunghissima, per seguire i propri passi a ritroso e uscire indenne dal labirinto.
Dunque l’abominio che il Minotauro rappresenta ha fine così. Con l’unione di un tradimento (quello di Arianna) e di un atto di coraggio (quello di Teseo).

Il Minotauro: il significato del mito

Il Minotauro ha avuto una fortuna letteraria ed iconografica sconfinata. La ragione risiede nel fatto che si tratta di un mito molto complesso e interpretabile su diversi livelli.

Anzitutto, infatti, si può rilevare come esso sintetizzi la conflittualità tra i popoli greco e minoico, la lotta per il predominio sul Mar Egeo. Non a caso, quando Creta era all’apice della sua potenza, Atene era agli albori. Dunque il Palazzo di Cnosso, dalla struttura vasta e complessa, non a caso poteva apparire ai Greci dell’Attica un labirinto. Così come la supremazia cretese poteva essere apparentata a un dominio violento e sanguinario. Del resto, non erano pochi gli stranieri a morire provando a cimentarsi nella taurocatapsia. Cioè un folle volteggio rituale compiuto dai giovani cretesi prendendo letteralmente i tori, animali con i quali avevano grande familiarità, per le corna.

In secondo luogo, inoltre, si può osservare come il Minotauro rappresenti un’umanità pervertita perché permeata dall’irrazionale, dalla bestia. Con un corpo di uomo ricoperto di pelliccia, zoccoli per piedi e un volto bovino dotato di corna, questo essere rappresenta l’umanità senza la ragione. E non a caso il suo antagonista è Teseo, che incarna non solo l’eroismo ma la razionalità, il logos che mette fine all’abominio.
Proprio in questa veste lo si ritrova nel dodicesimo canto dell’Inferno dantesco, dove Virgilio lo schernisce prima di passargli accanto. Il Minotauro si agita, si dimena, incarnazione della cieca violenza, ma resta un abominio che, come nel mito, ci si lascia semplicemente alle spalle.

Valeria Meazza

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