Per il quarto anno consecutivo il Mekong, il fiume più esteso dell’Indocina, entra in emergenza idrica: la peggiore degli ultimi sessant’anni. Dalle sue acque proviene il 25% del pescato d’acqua dolce globale e dipende il sostentamento di oltre 60 milioni di persone.
Come evidenziato nell’ultimo rapporto della Mekong River Commission (MRC) pubblicato a inizio gennaio, infatti, le significative anomalie che hanno colpito il regime idrologico a partire del 2015 sono il risultato della pericolosa combinazione di rischi riconducibili a due principali cause: i cambiamenti climatici e la pressione antropica.
La temperatura globale aumenta, eventi climatici sempre più incerti
Gli effetti dei cambiamenti climatici sul Mekong sono sempre più evidenti e riscontrabili lungo tutto il suo bacino. Se a monte la fusione degli ghiacciai tibetani mette a rischio i flussi idrici che alimentano la sorgente, una preoccupazione ancora maggiore arriva da valle.
L’innalzamento del livello dei mari accentua infatti il fenomeno di subsidenza lungo il delta del Mekong, con un ritmo di abbassamento del terreno circa venti volte maggiore rispetto a quello previsto. Un’ulteriore conseguenza di questo fenomeno è rappresentata dall’intrusione del cuneo salino che contamina le acque fluviali nell’intera foce, con gravi ripercussioni sull’economia agricola e sul fabbisogno idrico e alimentare. Ma com’è potuto accadere?
Secondo gli scienziati la matrice di questi eventi è riconducibile all’aumento delle temperature globali, che non solo hanno ripercussioni sulla morfologia del territorio, ma anche sugli equilibri idrologici.
Come afferma la MRC, i valori della temperatura della superficie terrestre e marittima delle regioni interessate è in costante aumento dall’ultimo trimestre del 2018, con estremi registrati tra il 2019 – anno in cui il Mekong ha toccato il livello più basso negli ultimi 100 anni – e il 2021.
Da queste anomalie termiche dipende la riduzione di precipitazioni, ma soprattutto la crescente variabilità di fenomeni climatici quali l’arrivo tardivo delle piogge monsoniche e l’aumento della persistenza di El Niño – Southern Pacific, evento periodico che provoca un forte riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico Centro Meridionale e Orientale.
In un ecosistema estremamente sensibile, l’insieme di questi fattori impatta fortemente sulla distribuzione della portata del fiume con evidenti conseguenze sulla riproduzione e migrazione dei pesci, così come sulla crescente aridità.
I più recenti modelli di precipitazioni hanno osservato che, “con un aumento medio della temperatura di 1,5°C, la piovosità media annua diminuirebbe del 10-15%”, tuttavia, sebbene sia chiara la necessità di tutelare un ecosistema sempre più fragile, prevedere con precisione come il Mekong reagirà a questi cambiamenti è complesso, poiché incerto è il risultato dell’interazione di tutti i rischi coinvolti.
Un chiaro esempio emerge da uno studio condotto dall’Università di Padova, il quale sostiene che entro il 2100 una percentuale dal 23% fino al 90% del delta del Mekong rischia di finire sotto il livello del mare e la natura variabile di questa stima è attribuibile a una seconda e sempre più impattante causa: la pressione antropica.
Dighe e sbarramenti minacciano il Mekong
“Rinnovabile” non è sinonimo di sostenibilità e la progettazione incontrollata di infrastrutture idroelettriche nel bacino del Mekong ne è un chiaro esempio. Da diversi anni la questione è oggetto di un intenso dibattito e di una crescente preoccupazione internazionale, a causa degli impatti senza precedenti e potenzialmente irreversibili che le dighe esercitano sull’entità e la stagionalità dei flussi idrici e solidi.
Un caso è quello delle dighe costruite nell’Upper Mekong Basin (UMB), dove la Cina sta investendo ingenti risorse per potenziare lo sviluppo dell’area attraverso l’idroelettrico. Solo lungo il Lacang, affluente situato nella provincia dello Yunnan, sono operativi sessantacinque impianti e Pechino ha in programma la costruzione di altre ventitré dighe, che si aggiungeranno alle quarantacinque strutture di stoccaggio poste lungo il ramo principale del fiume. Di queste, ben undici sono controllate dalla Cina e rientrano tra le più grandi dighe del Mondo, con oltre 47 miliardi di metri cubi di acqua immagazzinata e 21.310 MW di elettricità potenzialmente prodotta.
L’ alta frequenza di sbarramenti riduce così il flusso dei sedimenti che ogni anno ammontano a circa 160 mega tonnellate e costituiscono il principale vettore di trasporto dei nutrienti, indispensabili per la fertilità del terreno e per la tutela dell’intero ecosistema, che con 1200 specie differenti ospita una ricchissima biodiversità, seconda solo all’Amazzonia.
Biodiversità e fabbisogno alimentare a rischio: necessari interventi urgenti e collaborazione internazionale
Secondo Rivers International che promuove i diritti dei fiumi e delle loro comunitа, ci si attende che gli impatti portino una riduzione drastica nella sicurezza alimentare e produttivitа agricola, unitamente ad aumento nei livelli di povertà e accresciuta vulnerabilitа del clima in gran parte del LMB.
Ma per le persone che vivono lungo le sponde del Mekong i cambiamenti si sentono già.
Per far fronte alla questione, uno studio pubblicato su Science, nato dalla collaborazione tra il Politecnico di Milano e la University of Berkeley, California, propone un’agenda composta da sei punti, considerati fondamentali, per gestire l’emergenza. Una catastrofe che, tuttavia, può essere affrontata solo con un coordinamento tra i Paesi e una fiducia reciproca fondata sul riconoscere che la tutela del Mekong è un obiettivo importante per la loro politica regionale.
Fabio Lovati