Nell’era della transizione energetica, in cui stiamo cercando di abbandonare i combustibili fossili per adottare fonti di energia più sostenibili, spesso ci concentriamo sui benefici ecologici che questa trasformazione può apportare. Tuttavia, è fondamentale anche considerare tutto ciò che si nasconde dietro questo processo.
Ci troviamo ad affrontare una delle sfide più grandi della nostra era: riuscire a impedire che la transizione energetica si traduca in nuove devastazioni sociali e ambientali, magari in nuove guerre per le risorse. È un imperativo che va al di là di una semplice transizione energetica, poiché il nostro futuro dipende da come gestiremo questa trasformazione.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, dobbiamo definire il concetto di “transizione energetica”. Questa strategia mira a liberarci dall’uso dei combustibili fossili e abbracciare fonti d’energia rinnovabile, riducendo al minimo il consumo di risorse in ogni settore industriale. Carbone, petrolio e gas naturale sono i principali colpevoli delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra che stanno destabilizzando il nostro clima. L’urgenza di agire è stata sottolineata per anni dal Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), il quale ha recentemente ribadito questa necessità nel suo sesto rapporto pubblicato a marzo 2023.
Terminologie come “decarbonizzazione” e “net zero” sono ormai parte integrante del linguaggio dei decisori politici in tutto il mondo, ma spesso queste parole nascondono operazioni di facciata, una tattica nota come “greenwashing”. Nonostante ciò, la produzione di energia rinnovabile sta crescendo, seppur lentamente, insieme all’innovazione tecnologica, ai nuovi materiali e all’uso più efficiente delle risorse. Tuttavia, per combattere efficacemente il cambiamento climatico, è necessario ripensare l’organizzazione delle città e dei trasporti, ridurre l’uso delle auto individuali (anche se elettriche), cambiare le abitudini di consumo e migliorare il riciclaggio dei materiali.
Ma c’è un altro problema che dobbiamo affrontare: la transizione energetica richiede una grande quantità di materiali. Materiali noti come acciaio, cemento, alluminio e plastica, che sono ancora essenziali per la costruzione di impianti eolici, veicoli elettrici ed edifici efficienti. Inoltre, ci sono “nuove” materie prime, come il litio per le batterie, il cobalto per leghe metalliche resistenti, i magneti permanenti e le batterie delle auto elettriche. Questi minerali sono diventati fondamentali per la transizione energetica.
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), la domanda di litio, cobalto, nickel, rame e neodimio potrebbe crescere in modo significativo entro il 2030, e nel 2040 potrebbe superare la produzione disponibile. La produzione di questi minerali è altamente concentrata in alcune regioni del mondo, come l’Australia e il Cile per il litio, la Cina per le terre rare e l’Indonesia per il nickel. La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è una delle principali fonti di cobalto e coltan. Questa concentrazione geografica crea una situazione di grande potere per questi paesi, che potrebbero sfruttare le materie prime come le nuove riserve d’oro.
La “geopolitica delle materie prime” è diventata un elemento cruciale, e i paesi che possiedono queste risorse avranno un vantaggio strategico. La situazione si complica ulteriormente quando consideriamo chi ha la capacità di raffinare e lavorare questi minerali. Ad esempio, il cobalto estratto in RDC viene spesso lavorato in Cina, lasciando solo le royalties ai produttori locali. L’Europa, consapevole della sua dipendenza dalle importazioni di materie prime, sta cercando di diversificare le fonti e promuovere l’esplorazione mineraria interna, il riciclo e la produzione di materia prima “seconda”, cioè quella estratta dai prodotti scartati.
Tuttavia, c’è un aspetto cruciale che spesso viene trascurato: l’impatto ambientale, sociale ed umano dell’estrazione di queste materie prime. Prendiamo ad esempio il litio, che viene estratto in aree desertiche delle Ande chiamate “salar”. L’estrazione richiede grandi quantità d’acqua e l’uso di sostanze tossiche che danneggiano l’ambiente e minacciano le comunità locali. Nella regione del salar di Atacama in Cile, l’estrazione ha prosciugato due terzi delle risorse idriche, causando gravi danni agli agricoltori locali.
Il cobalto estratto nella RDC e il coltan sono spesso ottenuti in condizioni disumane, sia in miniere industriali che in miniere artigianali, coinvolgendo persino il lavoro infantile. Gli sforzi internazionali per stabilire linee guida e programmi di certificazione sono stati finora inefficaci, soprattutto nelle regioni dell’est della RDC, dove una guerra di trent’anni è alimentata in parte dalla competizione per queste risorse.
Ci troviamo quindi di fronte a una contraddizione: la transizione energetica può sembrare un passo verso un futuro più sostenibile, ma le materie prime necessarie per realizzarla spesso comportano costi ambientali e umani significativi. Tuttavia, esistono approcci migliori per l’estrazione di questi minerali, che possono minimizzare gli impatti negativi e distribuire equamente i benefici. È un compito difficile ma necessario per garantire che la transizione energetica non ripeta i modelli di sfruttamento globale del passato, ma invece contribuisca a un mondo più equo ed ecologicamente sostenibile per tutti.