Il greenwashing: cinquanta sfumature di verde

Ci avete mai fatto caso? La maggioranza dei loghi delle app più utilizzate – Facebook, Twitter, Linkedin, Telegram, etc. – o dei maggiori siti internet è colorato in qualche sfumatura di blu. La scelta del colore, infatti, è un fattore determinante nel marketing, perché serve ad attirare gli utenti.

Il colore blu ha effetti opposti al rosso ed ha dunque un potere calmante, rilassante, tranquillizzante e rinfrescante. Parlando di social network, è dimostrato che il blu sia in grado di dare assuefazione mantenendo incollati gli utenti allo schermo del pc o del telefono. Eppure, un altro colore si sta facendo strada tra quelli più diffusi per emblemi e loghi: il verde.

In cromoterapia, il verde agisce a livello nervoso e ha il potere di calmare e rilassare. Inoltre, è il colore associato alla natura e al benessere. Non sorprende quindi, nell’era della sostenibilità ambientale, di assistere a un green rebranding di massa.

Cos’è il greenwashing?

Il greenwashing
Vignetta realizzata da Legolize e SEBIGAS Renewable Energy

Il greenwashing è il lavaggio verde che attuano quelle società che vogliono ripulire la propria immagine dagli effetti negativi delle proprie attività sull’ambiente – cercando appunto di sembrare “green”, cioè più verdi e rispettosi della natura.

Il greenwashing è uno storytelling scorretto, che cerca di far passare per sostenibile qualcosa che non lo è. Questo metodo di utilizzare la crisi climatica come strumento di marketing, senza attuare alcun cambiamento strategico per combatterla di fatto, sta ormai spopolando e molte società oggi si stanno tingendo di verde, senza esserlo veramente.

Come è nato il greenwashing?

Immaginate di entrare nella vostra stanza di hotel. Aprite la porta, ammirate lo splendore generale, sistemate i bagagli e vi recate subito in bagno per rinfrescarvi dopo il viaggio.

La biancheria è morbida e profumata, così allungate il braccio per prendere un bell’asciugamano pulito. Nel farlo, incontrate un elegantissimo cartellino dell’hotel, che vi invita caldamente a non far lavare gli asciugamani ogni giorno per ridurre il vostro impatto ambientale e aiutarli a salvare il pianeta, quando, in realtà, l’unico vantaggio che cerca l’hotel è il risparmio economico.

Ecco, così è nato l’iconografico “greenwashing”, termine coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld dopo aver sperimentato una situazione simile a quella appena descritta in un resort delle Figi.

Perché le aziende fanno greenwashing e non si concentrano invece di più sull’essere green?

Perché è difficile. Essere veramente green significa ripensare al proprio business, alle proprie relazioni e al proprio collocamento socioeconomico.

Cosa possiamo fare per difenderci dal greenwashing?

Non accettare più compromessi e fare delle scelte che premiano chi imposta il business in maniera eco-sostenibile.

Bisogna iniziare a sviluppare un approccio critico e un buono spirito di osservazione, come in tutte le cose. Siamo continuamente subissati di informazioni e non tutte sono veritiere o corrette.

Essere un consumatore consapevole aiuta ad evitare di cadere in trappola e incentivare inconsapevolmente pratiche scorrette. Per questo, è importante leggere le etichette e verificare che termini come “green”, “bio” ed “eco-friendly” abbiano davvero riscontro.

Controllare le certificazioni ambientali, informarsi sulle aziende da cui si acquista o in cui si investe, non credere per fede al colore verde dei marchi o agli spot pubblicitari senza verificarli e usare app o QR code che permettono di determinare la carbon footprint (dall’inglese, “impronta di carbonio”) al fine di ridurre le emissioni di CO2 e quindi il proprio impatto sull’ambiente: sono tutte pratiche utili per fare scelte più consapevoli.

Giulia De Vendictis




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