Il giocatore: la roulette russa delle passioni secondo Fëdor Dostoevskij

Il giocatore ritratto da Dostoevskij richiama da vicino i personaggi ritratti nel famoso dipinto di Munch.

Composto in soli ventisette giorni per onorare un contratto rapace con un editore, Il giocatore è uno dei romanzi più celebri di Fëdor Dostoevskij. Acclamato alla sua pubblicazione nel 1866, ancora oggi il testo è spesso annoverato tra i libri da leggere almeno una volta nella vita. Ma qual è il segreto dello straordinario successo di quest’opera?

Nel 1866, anno di composizione de Il giocatore, Fëdor Dostoevskij, assorbito dalla stesura di Delitto e castigo per il Russij Vestnik, è prossimo al tracollo. Mai ripresosi dall’immeritata condanna capitale per attività sovversiva, commutata in extremis nella prigionia in Siberia, il romanziere è perennemente sul lastrico. E c’è di peggio. Per disperazione, nel 1865 aveva firmato un contratto capestro con Stellovskij, un bandito più che un editore. L’accordo era semplice: o Dostoevskij avrebbe consegnato entro novembre 1866 un nuovo romanzo, o avrebbe perso per nove anni i diritti sulle proprie opere. Non solo quelle pubblicate, che già sarebbe stato grave: i termini, degni di uno strozzino, si riferivano anche e soprattutto alle opere future. Il primo di ottobre, in preda all’angoscia, lo scrittore confessa all’amico A.P. Miljukov di non avere ancora scritto nemmeno una riga del nuovo romanzo. Il baratro, economico e morale, sembra inevitabile.

Niente affatto disposto a vedere l’amico rovinato, Miljukov estrae dal cilindro un’idea semplice ma geniale. Poiché, come Dostoevskij gli ha confidato, esiste già un ipotetico piano dell’opera, perché non realizzarla tramite dettatura?

Inizialmente titubante a causa della poca familiarità con questo metodo di lavoro, l’autore di Delitto e castigo finisce per lasciarsi convincere. Così, pochi giorni dopo, alla porta di Dostoevskij bussa una giovane stenografa graziosa, capace e davvero brillante: Anna Grigor’evna Snitkina. La donna, con dolcezza e generosità, porrà rimedio alla solitudine sentimentale del romanziere, rimasto vedovo nel 1864 e da allora impelagato in relazioni morbose. Non prima, però, di averlo aiutato a concludere, in soli ventisette giorni di lavoro, il romanzo dovuto a Stellovskij. Romanzo che, viste le premesse, si sarebbe tranquillamente potuto rivelare la sintesi di un disastro – letterario ed esistenziale – annunciato. E che, invece, fin da subito fu meritatamente accolto come un capolavoro sorprendente.



A dispetto della sua avvincente vicenda editoriale a lieto fine, tuttavia, Il giocatore non è a tutta prima un romanzo facile da amare. Il motivo è elementare: esso mette in scena, con una vividezza quasi fisicamente dolorosa da fronteggiare, alcune tra le più bieche passioni umane.

Non c’è infatti, ne Il giocatore, soltanto il vizio del gioco con le sue funeste conseguenze. Attraverso il personaggio di Aleksej Ivanovič, precettore di una famiglia della nobiltà russa in Germania, il lettore può infatti sperimentare numerose altre storture morali. Tra queste, centrali risultano l’ipocrisia e la dissolutezza dell’alta società, ma anche la passione amorosa sfrenata che induce a umiliarsi fino all’annichilimento. Aleksej, del quale si assume il punto di vista in prima persona (narrativa), non è affatto uno spettatore distaccato ed imparziale; egli, al contrario, è il giocatore. Il suo carattere, il suo umore, il suo comportamento nel dipanarsi della vicenda possono essere perfettamente riassunti da un’affermazione vergata nel suo diario:

Io di nuovo salterò fuori dall’ordine e dal senso della misura e mi metterò a vorticare, a vorticare, a vorticare…

Un movimento esistenziale che ricorda, spasmodicamente, quello della pallina sulla superficie della roulette.

Di tale movimento esistenziale, del resto, come delle morbose passioni disposte lungo i molteplici tavoli da gioco nella vicenda, Dostoevskij aveva una profonda conoscenza diretta.

Per scrivere Il giocatore, infatti, il romanziere pesca a piene mani dalla propria esperienza vissuta. Forse per il bisogno di una storia già vivida nella sua mente. Forse semplicemente perché era tempo, se si considera che nella corrispondenza privata già nel 1863 l’autore delineava il soggetto del romanzo. In una lettera di quel periodo all’amico e collaboratore N. N. Strachov, infatti, Dostoevskij tratteggiava così il futuro protagonista dell’opera:

ho scelto una natura immediata, un uomo spiritualmente evoluto ma che non ha raggiunto uno sviluppo completo in alcuna qualità specifica. Ha perduto la fede, ma non osa non credere. Si ribella alle autorità e al tempo stesso le teme […]. Il tratto principale è che tutta la sua linfa vitale, le sue forze, il suo slancio e l’audacia sono consacrati alla roulette. È un giocatore, e al tempo stesso non è un semplice giocatore.

È un uomo capace di umiliarsi e rovinarsi per amore, proprio come aveva fatto Dostoevskij per la giovane scrittrice Apollinarija Prokof’evna Suslova. Proprio al soprannome di lei, Polina, deve il nome la donna malamente amata da Aleksej Ivanovič, alla fine sconfitta dall’amore del giovane per l’azzardo. È un uomo incapace di fermarsi, inebriato dalla fortuna al tavolo da gioco, e di salvarsi, perché determinato a ignorare la propria schiavitù. Il tipo d’uomo che anche Dostoevskij era stato. Un uomo capace, anche dopo il matrimonio con Anna, di giocarsi i pochi averi pur essendo fuggito all’estero per allontanarsi dai creditori. Grazie all’amore e alla fermezza di sua moglie, il romanziere alla fine sarebbe riuscito a redimersi. Ma è assai probabile che, nello scrivere l’epilogo de Il giocatore, nella patologica speranza di Aleksej Ivanovič di rifarsi di quanto perduto al gioco

Domani, domani tutto finirà!

l’autore ritrovasse fissati sulla pagina i tratti della parte peggiore di sé.

A rendere Il giocatore un romanzo indimenticabile è l’operazione, comune a tutta la grande letteratura eppure estrema per coraggio, che in esso Dostoevskij compie. Pur senza lasciarsi sfuggire – coerentemente con la propria poetica – alcun giudizio sulla ludopatia o sugli altri vizi, lo scrittore mette sul tavolo la propria esistenza. E usando la penna come bisturi, la incide e la seziona fino a formulare una diagnosi universale.

Del resto, come annotava su un taccuino nel 1881, poco prima di morire, scopo del suo lavoro era stato «in pieno realismo, trovare l’uomo nell’uomo». Poco oltre, precisava:

Mi definiscono “psicologo”: non è vero. Io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè raffiguro tutte le profondità dell’anima umana.

E l’anima umana, per quanto possa non far piacere pensarci, non è soltanto ordine, razionalità, equilibrio, consapevolezza. Essa è capace di smanie rovinose. Lo dimostra l’amore fuori tempo del generale per Madame Blanche, cortigiana che induce il nobile decaduto a coprirsi di ridicolo. Lo dimostrano le gesta di Antonida Vasil’evna, anziana nobildonna paralitica che al tavolo della roulette lascia un capitale e la propria dignità. Lo dimostrano i lucidi deliri di Aleksej Ivanovič, cui il lettore può solo assistere con un misto di pena, disprezzo e ambivalente fascinazione. Senza poter fare a meno di chiedersi, in fondo, se al posto del protagonista riuscirebbe a non cadere vittima delle stesse febbrili illusioni.

Valeria Meazza

 

 

 

 

 

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