A largo delle coste del Mediterraneo sono 88 le specie a rischio di estinzione e molte di più quelle colpite. Si teme per gli effetti a lungo termine. Ci sono soluzioni alternative, ma la normativa è ancora obsoleta.
Quando le reti da pesca sintetiche non biodegradabili vengono perse, abbandonate o scartate in mare, possono continuare a catturare pesci e altri animali per un lungo periodo di tempo. Questo fenomeno è noto come Ghost Fishing e, al pari del cambiamento climatico, viene oggi riconosciuto tra i principali pericoli per la biodiversità marina.
A lanciare l’allarme è l’ultimo rapporto stilato dal progetto Stop Ghost Fishing presentato il 21 Marzo al Museo del Mediterraneo (Girona, Spagna) dal Dipartimento di Biologia Evolutiva di Barcellona. Uno studio scientifico che stima più nel dettaglio l’impatto della “pesca fantasma”sugli ecosistemi marini.
Il Ghost Fishing: una trappola per la vita marina
Dal nuovo rapporto emerge come l’impatto del Ghost Fishing riguardi in particolare le specie marine ad alto interesse ecologico e commerciale come aragoste, cernie, dentici, scorfani, seppie, coralli rossi e gorgonie rosse e bianche. Nello specifico gli scienziati hanno identificato 55 specie differenti intrappolate, altre 35 colpite indirettamente a causa della conseguente erosione del benthos e 50 specie che sfruttano le attrezzature come substrato per crescere, ricoprendole. A conferma di questo ultimo dato, la ricerca ricerca evidenzia che la maggior parte degli attrezzi perduti sono stati trovati in substrati rocciosi con coralli (60%) e che circa il 50% del materiale rilevato è composto da reti da imbrocco, ciò dovuto al fatto che le gli studi sono stati fatti a profondità inferiori di 30 metri.
Biofouling: come la natura ci può aiutare a comprendere il fenomeno
Mentre sono evidenti i danni diretti, provocati dai così detti ALDFGs (abandoned, lost or otherwise discharged fishing gears), si sa invece molto meno sugli effetti a lungo termine.
Uno studio italiano pubblicato sulla rivista Enviromental Pollution approfondisce la questione e mostra come gli ALDFGs rappresentino un pericoloso inquinante per oceani e mari del mondo, Mar Mediterraneo compreso. Gli scienziati indagano l’evoluzione degli ALDFGs in una comunità coralligena attraverso lo studio del biofouling, ovvero il processo di accumulo da parte dei microrganismi marini su materiali artificiali.
I risultati indicano che, già dopo un anno, le attrezzature da pesca sfruttate come substrato sono completamente ricoperte da fauna e flora sottomarina. Basandosi così sugli stadi di processo del biofouling, si potrebbero fornire informazioni utili per stimare l’età delle lenze, delle reti e di tutto il materiale gettato o perso in mare. Un fattore importante se si considera che gran parte di queste attrezzature sono oggigiorno composte da materiali plastici e polimeri: conoscere il loro periodo di giacenza nei fondali marini, fornirebbe così ulteriori informazioni riguardo il probabile rilascio di microplastiche e di nylon.
Le cause sono note, le alternative ci sono, ma la normativa rimane obsoleta
Sono molti i modi in cui gli attrezzi da pesca possono finire in mare: tempeste e onde possono spazzarli via dai pescherecci; lo stesso ambiente marino può causare la rottura degli attrezzi da pesca o il difficile recupero di quest’ultimi. Può anche capitare che nei porti non ci siano strutture adeguate per consentire ai pescherecci di smaltire i loro attrezzi fuori uso, oppure che non ci sia nessun tipo di controllo e il materiale da pesca può anche essere deliberatamente abbandonato.
E’ vero, gli ostacoli sono molti, a partire dalle trattative con i pescatori. Per le ONG e le organizzazioni ambientali è complicato prendere accordi: le regole regionali, le quote di cattura, l’estrema variabilità degli strumenti da pesca e la mancanza di incentivi ad usare reti e gabbie biodegradabili complicano la situazione.
Nonostante ci siano diverse procedure e protocolli proposti come soluzione, la questione è a monte: servono ricerche e dati più approfonditi, ma soprattutto la normativa è obsoleta: la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento dalle navi del 1973 andrebbe decisamente aggiornata. Se a livello locale sono numerose le iniziative per la pulizia di spiagge e fondali, è difficile attivarsi nelle acque internazionali. Inoltre anche gli impianti costieri avrebbero bisogno di una bonifica, quando in disuso.
Gli attrezzi da pesca bloccati nei fondali marini possono catturare organismi nel corso degli anni e causare un impatto ambientale che, sommato agli effetti negativi dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici e delle specie invasive, non lascerà scampo alla biodiversità marina dei nostri mari. Non c’è più tempo da perdere. –
Bernat Hereu, coordinatore scientifico del progetto MedRecover.