Storia di un’assimilazione forzata
Tra il 1880 e il 1990 le tribù indigene canadesi degli Inuit, Métis e Prime Nazioni furono vittime di uno dei tentativi di assimilazione culturale più cruenti della storia, tanto da venire definito, nel 2015, un “Genocidio Culturale”.
Il governo canadese agì assieme alla Chiesa, strappando più di 150.000 bambini dalle loro famiglie e collocandoli in “scuole residenziali”: istituti che avevano lo scopo di riformarli, ossia omologarli alla cultura dominante. I responsabili impedivano ai bambini di parlare la loro lingua, gli tagliavano i capelli (per le tribù indigene avevano un importante valore simbolico), e li costringevano ad adottare il credo e le pratiche cristiane, poiché la loro era considerata la “religione del diavolo”. Infine, li privarono del loro nome e gli assegnarono un numero (triste rituale di queste terribili politiche).
Ma le violenze non si limitavano al piano culturale. Nelle scuole si consumava ogni tipo di violenza. Una sopravvissuta Métis racconta che una suora la ustionò per non avere stirato i vestiti come da insegnamento, e quando la ferita si infettò – poiché i bambini non ricevevano trattamenti medici adeguati – le disse che quello era il segno del diavolo che abitava nel suo corpo. Anche le violenze sessuali erano all’ordine del giorno, e se non si collaborava si incorreva in ulteriori punizioni.
Migliaia morirono a causa delle condizioni sanitarie in cui versavano i loro alloggi. Il sovraffollamento causava il proliferare di malattie come la tubercolosi, e i malati non ricevevano cure sufficienti.
Quindi, è evidente che il progetto del governo non mirasse tanto a un’assimilazione delle minoranze indigene (intenzione già discutibile), quanto a una loro eliminazione. Infatti, Duncan Campbell Scott, sovraintendente del Dipartimento degli Affari Indiani, mentre presentava una nuova proposta di legge sull’obbligo di frequenze delle scuole residenziali, affermò: «Voglio sbarazzarmi del problema degli indigeni. L’obiettivo è continuare finché non ci sarà più un singolo indiano che non sia stato interamente assorbito nel corpo politico canadese.» Non importava come, l’importante era che non vi fossero più nuclei culturali differenti rispetto a quello dominante. Si giunse perfino a praticare la sterilizzazione forzata.
Negli anni ’60 il numero di scuole iniziò a diminuire, ma le pratiche di assimilazione non si fermarono. I bambini furono affidati a famiglie canadesi, dove però continuavano a subire violenze analoghe a quelle patite nei vecchi istituti. Agli occhi di chi se ne occupava, Métis e Inuit erano cittadini di una categoria inferiore.
Gli anni ’90 segnarono un lento e progressivo miglioramento delle condizioni dei popoli indigeni. Cessarono le violente pratiche di assimilazione forzata, e il governo iniziò a prendersi le sue responsabilità.
Nel 2006 ci fu un riconoscimento ufficiale delle violenze che il governo canadese aveva inflitto ai Métis, Inuit e alle Prime Nazioni. Fu pagato un risarcimento e istituita una Commissione che mantenesse vivo il ricordo delle sofferenze patite dagli indigeni, raccogliendo testimonianze e fornendo supporto a chi ne aveva fatto le spese.
Nel 2015, finalmente, la stessa Commissione riconobbe ciò che il Canada aveva cercato di ottenere attraverso le sue politiche: un genocidio culturale. Infatti, questo termine può essere impiegato anche per indicare i casi in cui i figli di una comunità sono allontanati dalle proprie famiglie, causando la perdita di cultura e tradizioni.
Infine, nel luglio del 2022 Papa Francesco si recò personalmente in Canada per chiedere perdono alle popolazioni indigene.
La rielaborazione del passato
All’interno dei testi emanati dal governo canadese, si può leggere a più riprese che le scuse hanno l’obiettivo di una «riconciliazione con i popoli indigeni». Tuttavia, sono state numerose le resistenze e le critiche sollevate. In particolare, è il testo del 2007 del Primo ministro Stephen Harper a essere al centro dell’attenzione.
Una lettura attenta rivela l’utilizzo di una retorica politica ben ragionata, in cui il governo canadese si assume le responsabilità del genocidio culturale, ma lo presenta come un incidente nella storia di un Paese che oggi è radicalmente differente rispetto al passato, accoglie la diversità e offre impulso al multiculturalismo. I fatti dicono il contrario. Tuttora le popolazioni indigene devono battersi per tutelare i loro diritti e i loro territori, come nel caso dell’oleodotto Trans Mountain, il quale minaccia le terre dei Secwepemc.
Inoltre, le istituzioni non hanno compiuto nessuna azione per promuovere un dialogo tra i cittadini canadesi e gli indigeni, come se i traumi subiti da intere generazioni possano essere guariti da scuse formali. Non è difficile comprendere perché Beverly Jacobs, presidente del Native Women’s Association of Canada e appartenente alle Prime Nazioni, non abbia accettato l’apologia di Harper.
Per guarire da simili ferite occorre elaborare ciò che è accaduto, e per elaborare ciò che è accaduto è necessario parlarne. Ma anche parlandone il cammino per la guarigione si rivela lento e tortuoso. Una lettera di scuse non basta per seppellire quanto fatto sotto al tappeto e far finta che tutto torni come prima, per due motivi: 1- Non c’è nessun “prima” a cui tornare. Le popolazioni indigene hanno affrontato abusi fin da quando è iniziata la convivenza con i colonizzatori; 2- Dimenticare significa fare un torto alle vittime. Passare oltre le loro sofferenze.
Il genocidio culturale subito da Inuit, Métis, e le Prime Nazioni non è un caso isolato, ma è sintomo di una pratica ricorrente nella storia umana, quasi rituale. La tendenza all’omogeneità, che obbliga il diverso all’uguaglianza – forzata –, affonda le sue radici in un passato profondo, che costantemente torna a farsi presente. Nel 1910, il libro di testo per le scuole canadesi in Ontario “History of Canada” descriveva così le tribù indigene: «Tutti gli indiani sono superstiziosi e hanno idee bizzarre riguardo la natura. Pensavano che le bestie, gli uccelli… fossero come gli uomini. Quindi un indiano era solito fare lunghi discorsi per scusarsi nei confronti di un orso ferito.»
Ciò che è percepito come stravagante deve essere corretto, normalizzato. Questo è il ritornello della storia che non ha escluso i Métis e le altre popolazioni indigene. Come sottolineato da numerosi intellettuali come Jacques Derrida (in Perdonare) e Theodor Adorno, per correggere questa tendenza violenta occorre sradicare le sue cause. Finché si continuerà a essere dimentichi del passato, esso continuerà a ripresentarsi, con forza sempre maggiore.
La riconciliazione è la meta, non il mezzo
Il rifiuto dell’apologia del Primo ministro Harper da parte della comunità indigena, non è un capriccio, né una litania del dolore. È una richiesta politica ben precisa, che cerca di tradurre in realtà il “mai più” udito pronunciare nel corso della storia dai sopravvissuti ai genocidi. La volontà è quella di guardare alla riconciliazione in ottica processuale e iterativa, non come una decisione presa dall’alto e imposta alle vittime. Più che di riconciliazione, si dovrebbe parlare di riconciliamento.
Non basta ammettere i propri errori, occorre riconoscerli. Bisogna capire la loro origine, e lavorare insieme per estirpare il seme della violenza dalla società. Soltanto così si potrà garantire un terreno fertile su cui la diversità possa fiorire e prosperare, apportando ricchezza alla comunità e formando un’unità che dia respiro alla differenza.
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