Il funzionamento perverso dell’agricoltura: dietro le proteste degli agricoltori

Il funzionamento perverso dell'agricoltura attraverso l'uso di monocolture intensive.

Le poteste degli agricoltori

In questi giorni sta attirando molta attenzione la marcia degli agricoltori, che con i loro trattori attraversano le strade italiane protestando contro le iniziative dell’Unione Europea, che intende accelerare la transizione ecologica. Sebbene il settore primario sia da anni in crisi, non si possono addossare tutte le responsabilità alla svolta green. Infatti, dietro queste proteste si nasconde il funzionamento perverso dell’agricoltura, che da tempo è entrata in un circolo vizioso a causa di paradossi economici e strutturali.

Il principale bersaglio delle proteste degli agricoltori è il Green Deal europeo. Alcune richieste sono senza alcun dubbio ragionevoli, come il divieto di importazione da Paesi che non rispettano le stesse norme; oppure la richiesta di calmierare il costo del gasolio. Ma a suscitare perplessità sono altre pretese. Tra queste: il rifiuto di non coltivare il 4% del terreno, il divieto alla diffusione di carne sintetica, o il rifiuto al dimezzamento dei pesticidi.

Gli agricoltori affermano infatti che i guadagni siano inferiori ai costi di produzione, e che un inasprimento di questi ultimi aggraverebbe irreparabilmente la situazione. Tuttavia, le ragioni della crisi si estendono ben oltre l’ambientalismo. Piuttosto, vanno ricercate nelle logiche di mercato che da decenni cercano di imporsi sulla natura allo stesso modo in cui investono il settore terziario, con il benestare dei produttori agricoli.

Le monocolture e il funzionamento perverso dell’agricoltura

Il progresso tecnologico ha portato a un incremento dei ritmi di produzione industriale. In qualsiasi settore, le fabbriche sono costantemente attive immettendo senza sosta gli articoli più richiesti, e il settore agricolo non ne è esente. Non si può più attendere che la natura faccia il suo corso, e soprattutto si deve soddisfare una domanda sempre crescente di specifici alimenti.

Basti pensare all’impiego del mais in diversi settori. In quello alimentare, ad esempio, lo si utilizza come mangime per gli allevamenti intensivi; in quello industriale, invece, viene utilizzato per la produzione di combustibile, ma anche di dentifrici o sacchi della spazzatura – attraverso trasformazioni chimiche di sostanze contenute al suo interno. Dunque, su questa singola pianta convergono gli interessi di svariati attori. Lo stesso discorso vale per numerose altre specie, come la soia.

Per questo motivo, l’immaginario collettivo delle campagne colorate ha dovuto lasciare il posto a quello di infinite distese monocromatiche, che proseguono per chilometri e chilometri. Un raccapricciante esempio è l’American Corn Belt, una monocoltura di mais che si estende per circa otto Stati negli USA. Deserti d’erba solcati da trattori e bagnati da pesticidi che avvelenano il suolo.


Ma il problema non è solo paesaggistico. Michael Pollan ne “Il dilemma dell’onnivoro” ha analizzato efficacemente il funzionamento perverso dell’agricoltura derivante da questi modi di produzione. In molti Paesi (tra cui l’Italia), i governi hanno stanziato fondi che incentivano le monocolture di determinate specie, attirando l’attenzione degli agricoltori.

Il ragionamento segue più o meno questo schema: supponiamo che ogni anno devo investire un euro. Per diminuire le spese, coltiverò quella pianta il cui costo è in parte coperto dai fondi stanziati dallo Stato, per esempio il mais. Quindi, di quell’euro, venti centesimi me li darà lo Stato e ottanta li metterò io. Fin qui, sembra filare tutto liscio. Il guadagno è assicurato, giusto? La realtà è ben diversa.

Infatti, tutti possono usufruire di questi fondi, e pertanto sul mercato si riverseranno enormi quantità di mais. Questa sovrapproduzione comporterà un abbassamento dei prezzi del mais, e quindi, alla fine, i miei proventi saranno leggermente inferiori alle spese di produzione. Ma adesso il mais costa ancora meno, e l’agricoltore comprerà ancora più mais rispetto all’anno prima per rientrare con le perdite rispetto all’annata precedente. Ecco come si innesca un circolo vizioso che impoverisce tutti gli agricoltori i quali, cercando un guadagno sicuro, sono rimasti intrappolati in una spirale di perdite economiche che si ripete annualmente.

Gli effetti sull’ambiente

Come se non bastasse, questo perverso funzionamento dell’agricoltura ha effetti devastanti a livello ambientale. La terra non ha una memoria elettronica, che possiamo svuotare quando vogliamo e ricominciare. Dovremmo considerarla come materia vivente. Carne composta da ferro, fosforo, microrganismi e tutto ciò che la abita. Il terreno tiene traccia di quello che facciamo, e pertanto occorre prendersene cura.

Gli agricoltori che rimangono intrappolati nella spirale economica descritta, si dimenticano di salvaguardare il benessere della loro terra. Spinti ad inseguire ciecamente il guadagno, utilizzano tecniche sempre più invasive sulle vene del terreno, aprendo squarci che lasciano ferite profonde.

Al posto del sangue, è anidride carbonica a fuoriuscire da questo corpo. Le conseguenze si ripercuotono sia sul macroclima che sul microclima. In primo luogo le esalazioni di CO2 contribuiscono all’aumento delle temperature, e in secondo luogo rendono sterile il terreno, privandolo dei nutrienti immagazzinati sotto terra.

Desertificazione e siccità sono fenomeni sempre più diffusi ormai. La crisi che in questi giorni ha colpito la Sicilia è in parte determinata da questi usi sconsiderati delle risorse. Una terra celebre per i suoi prodotti agricoli, adesso appassisce sotto il sole incessante che percuote il suo corpo.

Le piante che crescono sui terreni malati sono deboli, fragili e pertanto gli agricoltori devono ricorrere all’utilizzo di pesticidi per garantirne la sopravvivenza. Ma i frutti prodotti sono di scarsa qualità, se non vengono geneticamente modificati. Il risultato è un prodotto che difficilmente riesce a competere sul mercato.

La via d’uscita nella transizione ecologica

Malgrado le proteste degli agricoltori, per uscire da questa crisi la transizione ecologica potrebbe fornire un aiuto inaspettato. Numerosi produttori agricoli hanno da tempo abbandonato queste forme standardizzate di coltivazione, passando dalle monocolture alle pluricolture.

Invece di mirare al guadagno a breve termine attraverso la coltivazione intensiva di una singola specie, queste tecniche basate sul rapporto mutualistico tra gli organismi garantiscono un guadagno a lungo termine. Il terreno risulta più sano, così come le piante che vi crescono, riuscendo a resistere in maniera efficace alle intemperie. La cattiva annata di un prodotto può essere compensata dai proventi derivanti dalla vendita di tutti gli altri. Inoltre, la qualità superiore assicura il successo sulla concorrenza.

Ovviamente, questo significa innanzitutto rinunciare a buona parte degli incentivi statali. Pertanto, si dovrà spendere più capitale per avviare la propria attività. Infine, il rapporto fondato sul rispetto delle tempistiche della natura va contro alle domande del grande mercato. Non si può pretendere di vendere in continuazione lo stesso alimento. Le piante seguono il loro corso naturale di sviluppo, e il terreno viene anche fatto riposare, in modo tale da permettere la sua rigenerazione. Quindi le vendite punteranno al contesto locale.

Eppure, gli agricoltori che hanno cambiato i loro modi di produzione affermano di aver fatto la scelta migliore. Non soltanto per l’ambiente, ma anche per le loro tasche. Il funzionamento perverso dell’agricoltura si basa sulla volontà cieca dell’uomo di estendere il proprio controllo sulla natura. Ma dominare ciò che nemmeno comprendiamo appieno spesso si rivela controproducente, poiché innesca reazioni inaspettate.

Gli agricoltori conoscono la terra meglio di quanto la conoscano le lobby industriali e dovrebbero impiegare la loro conoscenza per regolare i meccanismi economici, non viceversa. La transizione ecologica potrebbe essere l’unico strumento per spingere i produttori agricoli al cambiamento, una transizione che in realtà implica un proiettarsi al futuro attraverso un recupero del passato.

Aldilà dei populismi di destra che cercano di sfruttare le proteste degli agricoltori per contrastare i dissensi più ostinati, si dovrebbe cercare una cooperazione intersettoriale verso l’orizzonte comune del benessere economico e ambientale. Ma questa armonia non può essere raggiunta se non si prendono in considerazione i bisogni della terra stessa, che oggi è profondamente ferita.

Alessandro Chiri

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