A partire dalle superstizioni popolari ascoltate nell’infanzia in Sicilia, nel 1902 Luigi Pirandello componeva la novella Il figlio cambiato. Una storia profonda e amara, tanto difficile che il suo autore nel farne un’opera teatrale ne cambiò il finale.
Che lo scrittore siciliano Luigi Pirandello avesse una certa sensibilità per le storie amare, oltre al Saggio sull’umorismo, lo mostrano novelle come La patente (1911). Che dell’amarezza della vita e, soprattutto, dell’avere a che fare con la gente, si possa ridere risulta un altro fil rouge della sua opera. E se non ridere, come si evince leggendo Il fu Mattia Pascal o la novella Risposta (1912), almeno fare della buona filosofia. La novella Il figlio cambiato – scritta nel 1902, confluita nel 1925 nella raccolta Dal naso al cielo – è un perfetto esempio del modus operandi dell’autore. Che prima ci fa assaporare una boccata di fiele nella duplice forma della sfortuna di un innocente e del pregiudizio popolare. E poi passa quel medesimo pregiudizio al vaglio con un bisturi affilatissimo, valutandone le dinamiche e descrivendo chi sa sfruttarlo e chi lo subisce.
Il figlio cambiato: di malattie infantili, di streghe, di razionalità
Il figlio cambiato in origine non aveva questo titolo. La novella, infatti, era intitolata “Le Donne” o forse “Le Nonne“, due termini che facevano riferimento alle streghe. Secondo una leggenda popolare siciliana che lo scrittore aveva ascoltato spesso nell’infanzia, quando a un bambino accadeva qualcosa di tragico o insolito, c’entravano sicuramente loro. Malauguratamente, nella seconda metà dell’Ottocento la mortalità infantile era ancora elevata. Per non parlare delle malattie invalidanti e degli incidenti che potevano colpire i più piccoli. Così la saggezza popolare aveva cercato di configurare le tragedie in una costruzione di senso, ipotizzando che fossero forze malefiche a operare contro i bambini. E chi sarebbe stato tanto perfido da colpire un innocente, se non una strega mandata dal Demonio?
La novella Il figlio cambiato mostra all’opera questa costruzione di senso precisamente nel suo farsi e nel suo funzionamento, chiamando in causa diversi attori. Anzitutto, il bambino vittima del “maleficio” e sua madre, che cambia radicalmente il modo di rapportarsi con lui. In secondo luogo, le donne del popolo, alcune delle quali per prime formulano la “diagnosi”. Ma anche le altre, quelle che hanno fama di essere streghe o di essere in buoni rapporti con esse. Donne avide e senza scrupoli, pronte a lucrare su questa disgrazia. Eppure anche sensibili abbastanza da trovare, nella menzogna, il palliativo giusto per le sofferenze della madre distrutta dall’accaduto. E infine il narratore, voce maschile colta e razionale, che esamina gli eventi e si sforza di decifrarli. Pur comprendendo la dinamica della menzogna, costui sceglie di non smentirla, rendendosi conto della forza di tale narrazione e al contempo della sua sostanziale misericordia.
La “sostituzione” del bambino: la credulità e la superstizione
Della vicenda ne Il figlio cambiato mette a parte un narratore, che riferisce al lettore di urla disumane udite durante la notte. Il mattino seguente, le donne del vicinato lo informano che a una poveretta del luogo, Sara Longo, le streghe nottetempo hanno sottratto il figlio. Il suo piccolino, tre mesi appena, bello e in salute, è stato sostituito da quelle donne diaboliche con uno sgorbietto deforme. Il narratore avanza qualche dubbio in merito, ma le sue interlocutrici si offendono moltissimo e provano a illuminarlo:
Era dunque chiaro che le «Donne» erano entrate in casa della Longo, nella notte, e le avevano cambiato il figlio […]. Uh, ne facevano tanti, di quei dispetti, alle povere mamme! Levare i bambini dalle culle e andare a deporli su una sedia in un’altra stanza! Farli trovare dalla notte al giorno coi piedini sbiechi o con gli occhi strabi!*
Mentre le comari, vincendo il raccapriccio, accudiscono il figlio cambiato, Sara Longo si reca da Vanna Scoma, donna che ha fama di essere una strega. Questa, dopo un’iniziale reticenza, afferma di aver visto il suo bambino, che vive ed è in buona salute. E continuerà ad esserlo, afferma, quanto più la Longo accudirà amorevolmente il bambino che le è stato lasciato. Il narratore ascoltando questo rimane molto colpito:
Mi sentii subito compreso d’uno stupore pieno d’ammirazione per la sapienza di questa strega. La quale, perché fosse in tutto giusta, tanto aveva usato di crudeltà quanto di carità. Punendo della sua superstizione quella madre col farle obbligo di vincere per amore del figlio lontano la ripugnanza che sentiva per quest’altro […]. E non levandole poi del tutto la speranza di potere un giorno riavere il suo bambino. Che intanto altri occhi, se non più i suoi, seguitavano a vedere, sano e bello com’era.
Un finale amaro
Chiaramente, Vanna Scoma racconta a Sara Longo di tenere sempre sott’occhio il figlio cambiato anche per tornaconto personale. In fin dei conti, il narratore lo dice:
d’altra parte io non ho detto che, per quanto sapiente, quella strega non fosse una strega.
Il marito della Longo, del resto, essendo un marinaio sta poco a casa. Non crede che quello sia figlio suo, ma un trovatello che, morto il loro bambino, la moglie ha portato a casa dall’orfanotrofio. Quando la moglie lo supplica per amore del loro bambino portato via, pur non credendoci l’uomo lascia che il bambino resti e poco se ne cura. Così come, dopo un po’, deve fare la stessa Sara Longo, essendo rimasta di nuovo incinta.
Non maltrattato, ma nemmeno accudito, il bambino resta abbandonato a sé stesso su un seggiolone nel piccolo portico davanti a casa. Gli altri bambini si prendono gioco di lui, gli fanno i dispetti, ma lui non si lamenta. Qualcuno ogni tanto si avvicina e la sua reazione è da stringere il cuore:
Se talvolta qualche bambino gli s’accostava per rivolgergli una domanda, egli lo guardava e non sapeva rispondere. Forse non capiva. Rispondeva col sorriso triste e come lontano dei bimbi malati. E quel sorriso gli segnava le rughe agli angoli degli occhi e della bocca.
Il suo posto nel mondo è quello di un assente. Cioè del bambino bello, sano, che cresce felice, di cui Vanna Scoma per scroccare qualche moneta di tanto in tanto va ancora a raccontare.
Dalla novella alla favola: per un finale meno amaro
Su Il figlio cambiato, tuttavia, Pirandello si trovò a lavorare ancora tra il 1930 e il 1932. In particolare, l’adattò per farla diventare un’opera teatrale in tre atti e cinque quadri. Non una tragedia, non una commedia: una favola. E questa, naturalmente, come ogni favola che si rispetti non poteva che avere un più lieto finale.
In questa versione della storia, per l’appunto La favola del figlio cambiato, la dinamica e i personaggi sono gli stessi. La prima grande differenza è che Vanna Scoma rivela a Sara Longo che il figlio cambiato è stato portato nel palazzo di un re. Lì vive come un principe, servito e riverito tanto più quanto più lei, la madre, si cura del mostriciattolo che le è stato affidato. La seconda è che, pur facendo la bella vita, il figlio cambiato è bello e sano, ma infelice. Ha nell’anima l’impronta di un’assenza inguaribile, la ferita del distacco dalla madre. Questa ferita, però, sulle musiche di Gian Francesco Malipiero alla fine viene sanata. Infatti, nell’epilogo madre e figlio si riconoscono e si riuniscono per non lasciarsi più.
Forse, in fondo, ci voleva una favola per sovvertire i più oscuri timori affondati in una superstizione.
Ipotizzo che nell’immaginario narrativo di Pirandello alberghi la metafora del lutto compianto, al quale la mente del parente si affida per spiegare ciò che non può capire.
La sostituzione, materializzata nel corpo dell’infante surrogato, corrisponde all’elaborazione del lutto, che cerca di spiegare quello che non potrà mai accettare sua sponte.
La metabolizzazione, nella sua naturale lacunosa parzialità, si affida, quindi, alla religione della “miglior vita” a cui è stato affidato il figliolo compianto. Si sostituisce alla fisicità il ricordo devoto, tanto quanto lo saranno le cure ‘votive’ rivolte all’icona del precedente, raffigurata in forma riduttiva per misurare l’entità della perdita.
Da sempre la morte è dipinta in forme oscure nella psicologia umana perché risulta incomprensibile quanto la visione di un corpo in ombra totale.
D’altronde, Pirandello stesso lo afferma, tra le righe, definendo la narrazione della donna consolatrice una “crudeltà pietosa”.