Il (falso) problema dell’astensionismo

astensionismo rapporto Censis 2023

Michele Marsonet

Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane


Il crescente fenomeno dell’astensionismo, si fa strada ovunque nelle elezioni nazionali e regionali, guadagnando l’attenzione dei media e degli intellettuali. Mentre alcuni ritengono il voto un “dovere morale”, altri sostengono che l’astensione rappresenti un diritto in democrazie mature come gli Stati Uniti e il Regno Unito, dove il fenomeno non genera gli stessi dibattiti che si riscontrano in Italia. Questo atteggiamento, tuttavia, è al centro di un dibattito su ciò che significa partecipare attivamente al processo democratico.


Il tema è inevitabilmente destinato a suscitare polemiche a destra e a sinistra, e ad attirare rimbrotti e accuse sulla testa di chi lo solleva. E tuttavia va affrontato, se non altro per amore dell’onestà e della franchezza. Sto parlando dell’astensionismo, il principale tormentone (anche se non l’unico) delle ultime elezioni, tanto nazionali quanto regionali.

Accade dunque ciò che si prevedeva e, soprattutto, si temeva da parte di molti. Il cosiddetto “partito degli astensionisti” – espressione che trovo assai bizzarra – è cresciuto a dismisura in pratica ovunque, tanto da indurre parecchi organi di stampa a definire questo “non partito” come il vero vincitore delle ultime tornate elettorali. Non solo. Quotidiani, mass media, social network e intellettuali insistono sulla tesi che il voto è un “dovere morale”, ragion per cui chi rinuncia a esercitarlo è, ipso facto, un reprobo indegno di vivere in un Paese democratico.

La mia opinione è diversa, e cerco di spiegare perché. Nelle democrazie mature, per esempio negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito, l’astensionismo è un fenomeno assai diffuso e non suscita le polemiche che, invece, scoppiano puntualmente da noi. Nelle nazioni anzidette si ritiene, giustamente, che il voto non sia un dovere bensì un diritto che, in quanto tale, può essere esercitato o meno, senza per questo mettere sul banco degli imputati tutti coloro che vi rinunciano. Nessun dramma se il numero degli astenuti supera quello dei votanti. In America tale situazione si è verificata più volte, senza suscitare pianti e grida di dolore.

Il sistema funziona comunque, anche se gran parte dell’elettorato non si reca alle urne, e viene riconosciuto ai cittadini il sacrosanto diritto di disinteressarsi di ciò che fanno i partiti, andando in vacanza o dedicandosi al
proprio hobby preferito mentre si svolgono le operazioni elettorali. Si tratta, a mio avviso, di un segno di civiltà e maturità. Il voto è un obbligo solo nei regimi monopartitici e dittatoriali. In Italia ne abbiamo avuto un buon esempio nell’epoca fascista, quando non votare costituiva un reato e chi lo faceva era immancabilmente inserito nelle liste nere delle questure.

Lo stesso accade ora, per menzionare un solo esempio, nella Repubblica Popolare Cinese, dove a chi non vota viene in modo automatico attribuita la qualifica di persona che non approva la politica dell’unico partito esistente, con tutte le conseguenze (spiacevoli) del caso. In Italia il voto di massa, che a volte raggiungeva percentuali bulgari dell’80 o 90%, era comune nel periodo delle formazioni politiche ideologiche, alle quali si dava il consenso per atto di fede, indipendentemente dalle candidature in campo.

Tale periodo è terminato, grosso modo, con la scomparsa dell’Unione Sovietica e con la progressiva “laicizzazione” del vecchio PCI. Il fatto è che viviamo in un’epoca del tutto diversa, nella quale gli atti di fede non sono più di moda e conta più il “fare” delle dichiarazioni ideologiche. Tanti non hanno ancora metabolizzato il cambiamento, come ben si nota leggendo le dichiarazioni post-elettorali.

È un atteggiamento errato e non in sintonia con i tempi. Si lasci a ogni singolo cittadino la possibilità di starsene a casa quando le urne sono aperte, oppure di andare a votare se lo ritiene opportuno perché trova partiti e candidati di suo gradimento. La democrazia funziona così, come dimostrano gli esempi di nazioni in cui essa è radicata da secoli.

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