L’impatto allarmante dell’emergenza climatica sulle migrazioni e la crisi umanitaria che ne deriva si collocano nel deserto giuridico a tutela dello status dei rifugiati climatici. Il caso Teitiota come riferimento normativo cui appellarsi.
L’incontro tra Greta Thunberg e Antonio Vitorino
Lo scorso 27 gennaio, Greta Thunberg ha incontrato Antonio Vitorino, Direttore generale dell’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. L’incontro, motivato dalla richiesta di una concreta azione e una maggiore sensibilizzazione riguardo l’impatto dei cambiamenti climatici sulle migrazioni, scaturiva dalla donazione di una somma di 275.000 euro da parte della Fondazione Greta Thunberg a sostegno dell’azione dell’OIM in risposta alle inondazioni del Pakistan e alla siccità in Somalia.
Il legame esistente tra emergenza climatica e migrazioni non è che una delle conseguenze del modello di sviluppo insostenibile e iniquo che le politiche dei Paesi occidentali conducono incuranti del diritto alla vita di milioni di persone nel Sud del mondo.
Secondo l’UNHCR, l’organizzazione dei rifugiati, il cambiamento climatico potrebbe causare entro il 2050 fino a 200 milioni di sfollati. Le popolazioni di Africa, Asia e America Latina, vale a dire, come sottolinea Vitorino, le meno coinvolte nelle cause a monte dell’emergenza climatica, saranno le più colpite.
I rifugiati climatici
Nel 2008 Biermann e Boas coniarono il termine di rifugiato climatico per indicare la fuga dal proprio Paese di origine a causa di eventi quali siccità, innalzamento del livello del mare, condizioni atmosferiche estreme. Lo status di rifugiato climatico non è riconosciuto giuridicamente, a differenza dello status di rifugiato politico tutelato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Per questo l’OIM preferisce parlare di migranti ambientali per indicare coloro i quali sono costretti a fuggire dal proprio territorio di origine a causa dei cambiamenti climatici dovuti alle politiche occidentali.
Il gap legislativo, naturalmente, si riflette su quello umanitario. Il diritto alla vita e quello alla dignità umana sono concretamente minacciati dalle condizioni estreme del clima. A ciò, si aggiunge la riluttanza all’accoglienza e il cinico opportunismo dei Paesi cosiddetti sviluppati.
Il caso Teitiota
Nel 2013, il signor Teitiota, un migrante ambientale della Repubblica di Kiribati, arcipelago del Pacifico le cui isole si trovano a soli tre metri sul livello del mare, constatata l’impossibilità di vedersi rinnovato il permesso di soggiorno in Nuova Zelanda, dove si era rifugiato a causa dell’innalzamento del livello del mare nella sua isola, teatro per questo di una grave crisi sociale e politica, presentò domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato. Le autorità neozelandesi ne ordinarono il rimpatrio. Nel 2015, senza arrendersi, Teitiota si rivolse al Comitato Onu per i diritti civili e politici affermando che la decisione della Nuova Zelanda costituiva una violazione del diritto alla vita.
Il Comitato rigettò l’istanza, ma per il solo fatto che la Repubblica di Kiribati stava già adottando provvedimenti volti alla tutela della popolazione. Fu così stabilito il principio dell’accoglienza nell’eventualità in cui il Paese di origine non presenti provvedimenti atti a garantire il diritto alla vita e a condizioni non degradanti.
Sulla base di questo precedente, nel 2021 la Corte di Cassazione italiana riconobbe il diritto di asilo a un cittadino del delta del Niger in cui le compagnie petrolifere avevano creato una situazione di dissesto ambientale. Fu stabilito che qualsiasi situazione in grado di minare il diritto alla vita, alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione dell’individuo sia da considerare una situazione di pericolo pari a quella che scaturisce, ad esempio, da un conflitto armato.
La strada per il riconoscimento dello status di rifugiato climatico è ancora lunga, sebbene si tratti di una vera e propria emergenza umanitaria. Bisognerebbe agire contemporaneamente sul piano della tutela ambientale e su quella del diritto internazionale. Bisognerebbe, soprattutto, interrogarci individualmente sul modello di sviluppo in cui, come macchine orientate alla sola dimensione del consumo e del lavoro, siamo fagocitati.