Chi scegliere di curare e chi lasciar morire, qualora i posti in terapia intensiva o i respiratori non fossero più sufficienti? Dovremmo tutelare prioritariamente la salute pubblica oppure l’economia? La pandemia in atto ci ha costretti a familiarizzare rapidamente con domande che, prima dello scorso anno, non si sarebbero poste nemmeno in un incubo. E, mentre mancano gli strumenti etici e critici necessari, nel dibattito pubblico sul diritto alla salute e alla sicurezza si ripresentano prese di posizione aberranti. Molte di queste, inconsapevolmente, ripropongono – riattualizzandone le derive paradossali – un argomento filosofico risalente al 1967: il dilemma del carrello ferroviario.
Formulato dalla filosofa morale britannica Philippa Foot, il dilemma del carrello nella sua versione originaria propone questo esperimento mentale:
un tram o una motrice ferroviaria sono privati dei freni da un guasto: la loro corsa non può arrestarsi, ma soltanto cambiare binario. Sul percorso del vagone cinque operai sono al lavoro e, a causa dello spazio ristretto, non hanno la possibilità di scansarsi per non essere investiti. Su un altro binario, sul quale la motrice potrebbe essere immessa tramite un deviatoio, è invece al lavoro un solo operaio. Anche quest’ultimo è impossibilitato a spostarsi: se lo scambio venisse azionato, sarebbe certamente investito come i colleghi dall’altra parte. Un osservatore vicino alla leva e consapevole dei fatti dovrebbe azionare il deviatoio, uccidendo un uomo per salvarne cinque?
Avendo come contesto un articolo riguardante il dibattito sull’aborto, l’esperimento nasceva per ragionare sulla legittimabilità di certe scelte in campo medico. Tuttavia, il dilemma del carrello è poi diventato enormemente popolare soprattutto per essere stato riformulato negli anni in versioni di assurdità crescente.
La più famosa tra queste è probabilmente quella formulata da Judith Jarvis Thompson nel 1976, che prende il nome di “dilemma dell’uomo grasso”. Secondo questa variante, la situazione di partenza è simile a quella di Foot: una motrice impazzita potrebbe travolgere cinque operai al lavoro sul binario. Non è disponibile, tuttavia, uno scambio: c’è solo, accanto all’osservatore, un uomo enormemente grasso. Sarebbe moralmente lecito spingerlo sui binari per rallentare la motrice e salvare i cinque operai? Se vi venisse da rispondere che l’intera questione è un’assurdità perché non c’è corpo umano di massa o densità sufficiente per fermare un treno, sbagliereste. Almeno secondo numerosi filosofi morali, che reputano la plausibilità del problema in termini di fisica “non pertinente”. Ciò che conta – spiega ad esempio Ruwen Ogien, non senza un pizzico di sufficienza – è l’aspetto concettuale. In nome dell’astrazione, dunque, il dilemma del carrello diventa un intellettualmente raffinato gioco al massacro.
Sulla legittimità e i limiti degli esperimenti mentali nel contesto della riflessione morale si è molto discusso e ancora oggi l’opinione dei filosofi è discordante. Chi ne difende l’impiego evidenzia come essi risultino interessanti strumenti di analisi delle nostre intuizioni morali e delle giustificazioni fornite all’azione. Il problema però, a mio parere, è che molti di essi sono concepiti come un gioco dalla posta altissima truccato a favore del banco.
Lo stesso dilemma del carrello ferroviario già nella formulazione di Foot dovrebbe insospettire proprio per l’assenza di informazioni contestuali che lo caratterizza. Informazioni che, ben lungi dall’essere “non pertinenti”, nella situazione concreta di una scelta atroce avrebbero un peso decisivo. Dunque il problema con questo esperimento mentale è la sua plausibilità, la sua immaginabilità? In effetti, la questione è più grave. Il guaio è che il dilemma del carrello ferroviario ci mette nella posizione di decidere con estrema facilità della vita di un altro essere umano. E c’è di peggio. Nel momento in cui lo fa, da una parte ci obbliga a credere che non c’è altra scelta. Dall’altra, nel frattempo, ci assolve, poiché abbiamo dovuto scegliere il male minore. Legittimando – o quantomeno sdoganando – un ordine di discorso e una postura esistenziale di per sé inaccettabili.
Ora, che c’entrano il dilemma del carrello ferroviario e gli esperimenti mentali con la situazione che stiamo vivendo?
Il Covid-19 ci ha posti, direttamente o indirettamente, in una situazione inaudita, rendendo concreti scenari che prima avremmo considerato assurdi. Ci ha costretti a confrontarci con la possibilità che le risorse del sistema sanitario in termini di personale, spazi e macchinari non bastassero per tutti. E mentre la SIAARTI emanava un documento riportante specifiche raccomandazioni di etica clinica per l’emergenza, si iniziava a discutere pubblicamente su chi curare prima. Molti intellettuali, significativamente, chiamavano in causa proprio il dilemma del carrello e la necessità di scegliere il male minore. Notevole, secondo me, è stata invece la risposta di Maurizio Ferraris, che ha alzato le braccia al cielo dichiarandosi ignavo. Nella scelta di non rispondere a una domanda impossibile non ho percepito vigliaccheria, ma umiltà e autentica umanità. Tratti che mi sembra manchino a quegli studiosi entusiasti di discettare intorno a uomini gettati sotto un treno e anziani rantolanti.
Legittimamente, in un articolo dello scorso 18 aprile, il filosofo Maurizio Balistreri sosteneva la necessità di avviare una riflessione pubblica sui criteri della medicina dell’emergenza. Puntualizzando, del resto: «probabilmente, per uscire da una situazione terribile come quella che abbiamo vissuto bisogna iniziare a porsi le giuste domande».
Personalmente, ho molte difficoltà a credere che domande poste in spazi di riflessione etica costruiti come il dilemma del carrello possano essere di qualche utilità. Credo, anzi, che rispondere in astratto a domande come «chi dovremmo salvare e chi dovremmo lasciar morire?» sia un atto di arroganza e disonestà intellettuale. Perché farlo senza impugnare i termini del problema significa avallare uno specifico ordine discorsivo e di pensiero. Quello che, facendosi scudo delle parole «non c’è altra scelta», divide i cittadini in meritevoli e non meritevoli di vita e salute.
Ciò significa che i protocolli sanitari e le raccomandazioni etiche sono sbagliati o non necessari? Naturalmente, no. E nemmeno che sono perfetti e assolutamente indiscutibili. Essi sono strumenti, sempre rivedibili e perfettibili, che supportano i medici e il personale sanitario in scelte inimmaginabilmente dolorose e complesse.
Il punto è che nessuna di queste scelte viene compiuta in astratto: le vite e le morti di cui si decide sono sempre tremendamente concrete. E vengono compiute, peraltro, in un contesto molto preciso. Per questo ritengo che, oggi, dovere degli intellettuali e di tutti i cittadini dovrebbe essere opporsi a una astratta e macabra contabilità della morte nel discorso pubblico. Prima di domandarci chi lasciar morire, cosa sacrificare, chi lasciare indietro, penso dovremmo tutti quanti svolgere un altro esercizio di ragionamento morale. Provare, cioè, anzitutto a disinnescare quella prassi di discorso e di pensiero che ci rende indifferenti alla vita e alla morte altrui. Talmente indifferenti da pronunciarci senza esitare su chi lasciare che muoia o si ammali. E poi, prima di chiederci cosa debbano fare gli altri, domandarci cosa possiamo fare noi per aiutare la nostra comunità a uscire da questa emergenza.
Valeria Meazza