Il tribunale di Caltanissetta ha depositato le motivazioni della sentenza del processo per il depistaggio delle indagini di Via d’Amelio. Una vicenda che si contraddistingue per il “clima di diffusa omertà istituzionale” come viene definito dagli stessi giudici. Questi, dopo trent’anni, sono pronti a puntare il dito contro le istituzioni, sempre più evidentemente coinvolte nella strage. Quel 19 luglio 1992 forse si sarebbe dovuta prestare più attenzione ai cinque uomini in giacca e cravatta che si aggiravano spensierati per il luogo dell’attentato.
Le motivazioni della sentenza: Cosa Nostra è la sola responsabile?
A luglio 2022 si è concluso il processo concernente il depistaggio delle indagini di Via d’Amelio. Lo scorso 6 aprile sono state pubblicate le motivazioni della sentenza, gettando un polverone sulle istituzioni. Infatti, i giudici del tribunale di Caltanissetta sono certi che l’attentato e le vicende connesse ad esso non siano riconducibili solo all’azione di Cosa Nostra. Si parla di una “convergenza d’interessi fra Cosa Nostra e gruppi di potere esterni” in qualche modo interessati a fare fuori il magistrato Paolo Borsellino.
Diversi i fattori che riconducono a tale tesi, ad iniziare dalle dichiarazioni false che hanno costellato i tre gradi di giudizio dei processi dedicati alla strage. Inoltre, le circostanze del delitto non sembrano corrispondere all’abituale modus operandi dell’organizzazione mafiosa. Cosa Nostra infatti, sottolineano i giudici, è sempre stata molto cauta a diluire nel tempo le sue “vendette”, specialmente quando queste riguardano figure istituzionali. Invece l’attacco a Paolo Borsellino arriva nemmeno due mesi dopo quello all’amico e collega Giovanni Falcone. Tuttavia, i maggiori sospetti riguardo la “partecipazione (morale e materiale)” da parte di istituzioni statali proviene dal furto del “Sacro Graal” di Via d’Amelio: l’agenda rossa.
Il furto dell’agenda rossa e gli individui sospetti sul luogo dell’attentato
La sparizione della celebre agenda in cui Paolo Borsellino appuntava con precisione maniacale piste, ipotesi e notizie, è da sempre stato uno degli aspetti più misteriosi ed intriganti della strage di Via d’Amelio. Il responsabile del furto deve essere stato qualcuno con la possibilità di avvicinarsi alla scena del crimine molto di più di quanto non potesse essere concesso ad un “passante”. Non a caso, nelle motivazioni della sentenza leggiamo:
“A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra“.
Sul luogo dell’esplosione, tuttavia, erano stati avvistati quattro o cinque uomini, vestiti di tutto punto in giacca e cravatta nonostante l’afa del luglio siciliano. Le testimonianze principali di tale avvistamento provengono dal sovraintendente della squadra mobile di Palermo, Francesco Paolo Maggi, oltre che dall’unico superstite della strage, Antonio Vullo. L’appartenenza in qualche modo “istituzionale” dei soggetti è ovvia dato il permesso accordatogli di gironzolare indisturbati tra le macerie. I testimoni, nel corso del processo sul depistaggio delle indagini di Via d’Amelio, raccontano come gli eleganti personaggi si siano dichiarati membri dei “Servizi”. Maggi e Vullo, inoltre, notano entrambi un certo interesse dei soggetti per la famosa borsa di cuoio di Borsellino, dov’era risaputo fosse contenuta l’agenda.
La fase embrionale del depistaggio delle indagini di Via D’Amelio
La presenza dei misteriosi individui quella domenica pomeriggio del 1992 rappresenta un aspetto che il Tribunale non ha potuto approfondire. D’altronde stiamo parlando di eventi accaduti trent’anni fa, i giudici sono costretti ad arrendersi di fronte alcuni limiti strutturali e oggettivi del processo. Ciò nonostante, i dati raccolti sembrano sufficienti per affermare che la presenza di membri delle istituzioni sulla scena dell’attentato costituirebbe il primo e cruciale episodio di un lungo depistaggio.
Gli uomini in giacca e cravatta potrebbero essere stati il “braccio” del furto della celebre agenda, ma quanto ne sappiamo del “cervello”? Potrebbe trattarsi di Arnaldo La Barbera, all’epoca coordinatore del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino ed ormai morto. Le medesime persone in giacca e cravatta erano infatti state avvistate proprio presso gli uffici del superpoliziotto durante le indagini sulla strage di Capaci. Di La Barbera poi non viene fatto un ritratto esattamente lusinghiero all’interno delle motivazioni della sentenza. I giudici non hanno dubbio che egli avesse condotto le indagini di polizia andando contro i dettami costituzionali. Le prove risultano tuttavia insufficienti per sostenere che egli fosse coinvolto in qualche modo con l’associazione mafiosa.
Trent’anni di depistaggio delle indagini di Via d’Amelio: medaglia d’oro all’omertà
Nonostante le motivazioni della sentenza aggiungano qualche pezzo mancante al grande puzzle di Via d’Amelio, persistono i misteri riguardo moventi e protagonisti del depistaggio. Abbiamo già evidenziato l’estrema difficoltà di ricostruire fatti di vicende avvenute ormai più di un quarto di secolo fa. La difficoltà è ancora maggiore se consideriamo che le indagini hanno visto primeggiare atteggiamenti omertosi da parte delle persone coinvolte. A tal proposito, i giudici del tribunale di Caltanissetta hanno rimproverato i fin troppi silenzi e vuoti di memoria. Viene sottolineato come la mancanza di testimonianze “genuine” e la “ritrosia” diffusa fra Polizia di Stato e gli stessi componenti del Gruppo Falcone e Borsellino abbiano impedito una “ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti“.
Un atteggiamento che ci fa arrivare nel 2023 con ancora tantissimi punti interrogativi sulla strage di Via d’Amelio. Un Paese a cui non bastano tre decenni per arrivare a capo di un caso tanto importante. Il cancro principale, da cui si diramano pericolose metastasi all’interno della società italiana, sembra risiedere proprio tra le fila delle istituzioni, pronte a omettere ed occultare preziose informazioni. A questo punto è legittimo chiedersi: delle istituzioni che hanno qualcosa da nascondere in materia di mafia, sono istituzioni di cui fidarsi? La risposta sembra darcela Vincenzo Musacchio, criminologo forense e giurista intervistato da Rai News, che afferma:
“Borsellino e lo stesso Falcone sono stati mandati al macello perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe invece dovuto proteggerli ad ogni costo“.
Dei nuovi sospetti vengono gettati sulle istituzioni a distanza di trent’anni da una delle stragi che di più hanno segnato gli anni Novanta in Italia. Dal processo per il depistaggio delle indagini di Via d’Amelio emerge (ancora) un atteggiamento di forte omertà… conosceremo mai la verità? Noi di Ultima Voce lo speriamo.