Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
Si parla molto della fine del “melting pot”, vale a dire il “crogiolo” che ha consentito agli Stati Uniti, nazione che non è mai stata omogenea dal punto di vista culturale ed etnico, di diventare una potenza mondiale.
Per un lungo periodo di tempo, il fattore che ha consentito di superare le divisioni è stato quello linguistico. Gli immigrati, dopo essere sbarcati nel porto di New York, dovevano imparare l’inglese. E, se i genitori non ce la facevano ad assimilare la nuova lingua, ci riuscivano comunque i figli grazie all’istruzione impartita nelle scuole, che era per l’appunto monolinguistica.
La situazione ha cominciato a cambiare quando ci si è accorti, già alla metà del secolo scorso, che in vaste aree la lingua più parlata era invece lo spagnolo, grazie all’immigrazione dall’America Latina o a causa della contiguità geografica con le nazioni che vi appartengono.
Tipico è il caso della Florida. Se andate in un bar di Miami e fate un’ordinazione in inglese, capita che gli addetti non vi capiscano affatto e vi rispondano in spagnolo. E allora, se siete italiani, il problema si supera grazie al fatto che le due lingue sono abbastanza simili da permettere una comprensione reciproca di base.
Comunque, nella gran parte degli Stati che compongono la Federazione, l’inglese ha mantenuto un netto predominio favorendo così l’assimilazione culturale. Questo, tuttavia, era consentito dal fatto che gli Usa sono rimasti finora un Paese a maggioranza anglosassone.
All’inizio si trattava dei celebri “wasp”: white, anglo-saxon e protestant. In seguito sono arrivati irlandesi e italiani, che anglosassoni e protestanti non sono. Tuttavia i due gruppi, pur attenti a mantenere le loro radici e tradizioni, non mettevano in dubbio le basi istituzionali della nazione che li aveva accolti.
Dal canto suo la vasta comunità afroamericana, pur lottando per i propri diritti civili, si è sostanzialmente mantenuta nello stesso solco senza revocare in dubbio l’ordinamento istituzionale. E infatti, con la presidenza di Barack Obama dal 2009 al 2017, ha conquistato il vertice del potere per la prima volta.
La posizione degli ispanici, cioè degli immigrati di origine latino-americana, è sempre stata più ambigua. Più difficile, per loro, l’accettazione di una cultura di origine protestante che sentono in gran parte estranea alle loro stesse radici.
Bisogna però fare attenzione ai numeri. Su 328 milioni di abitanti, i bianchi erano circa il 75% ancora nel 1990, mentre oggi sono scesi a poco più del 60%. Nel frattempo i “latinos” sono arrivati quasi al 19%, gli asiatici al 6%, e gli afroamericani al 13,5%. Si tratta, com’è facile capire, di un cambiamento di enorme portata. L’antica base “wasp” ha perduto buona parte della sua importanza, mentre ispanici, neri e altri gruppi hanno aumentato la loro in modo esponenziale.
Ovviamente ciò non basta a spiegare quanto sta attualmente avvenendo negli Usa, con i programmi scolastici e universitari che spesso rifiutano i classici della letteratura e della filosofia occidentali per adottare narrazioni del tutto diverse (per non dire alternative). Ma è comunque un elemento di cui tener conto se si vuole almeno dare un senso agli ultimi avvenimenti.
L’America come noi la conoscevamo sta progressivamente sparendo, lasciando il posto a una nazione in cui il multiculturalismo assume una posizione dominante. Può anche darsi che, in un futuro non troppo lontano, la vecchia nozione di “Occidente”, che proprio sugli Stati Uniti faceva perno, cada sempre più in disuso. Né si sa, finora, cosa possa prenderne il posto.