Il capolavoro è una questione di genio? D’illuminazione? Può darsi. Ma ha alla base anche un lavoro consapevole. In particolare, Edgar Allan Poe (Boston, 1809 – Baltimora, 1849) ricorda bene come sia nata la sua più famosa e amata poesia, Il Corvo (1844-1849). Ne parla in un suo saggio breve, Filosofia della composizione. Esso è compreso nell’edizione Newton Compton (Roma, 2012) de Il Corvo e tutte le poesie (cura e traduzione di Tommaso Pisanti).
“Ho spesso pensato a quale interessante articolo di rivista potrebbe essere scritto da un autore che volesse – cioè che potesse – raccontare, passo passo, i procedimenti attraverso i quali una qualsiasi delle sue composizioni abbia raggiunto la sua definitiva realizzazione. Non saprei dire perché finora un tale articolo non sia mai venuto alla luce: ma, probabilmente, sarà stata la vanità degli autori alla base di una tale omissione, più che ogni altra eventuale ragione. Gli scrittori, per la maggior parte – e in modo speciale i poeti – preferiscono dare a intendere che essi compongono in uno stato di splendida frenesia – di estatica intuizione – e rabbrividirebbero all’idea di un pubblico che desse un’occhiata, dietro la scena, alle elaborate e ondeggianti crudezze del loro pensiero…” (p. 232)
Poe tralascia del tutto le circostanze personali in cui l’idea nacque, per concentrarsi sull’intenzione di comporre – intenzione che nacque per necessità, afferma lui. L’obiettivo era quello di realizzare uno scritto che incontrasse sia i gusti del pubblico che quelli della critica. La prima cosa che volle curare fu la brevità: essa permette, infatti, di concentrare l’attenzione del lettore sulla totalità del testo. È quell’effetto che Poe chiama “unità d’impressione”.
Si pongono, ora, le questioni di gusto (che l’autore voleva fosse universale). La poesia è contemplazione del Bello, certo… ma cos’è il Bello? Poe lo definisce non come una qualità, ma (ancora una volta) come un effetto:
“…l’intensa e pura elevazione dell’anima – non dell’intelletto o del cuore – […] e che si prova in conseguenza della contemplazione…” (p. 234)
Secondo il poeta, tale effetto si ottiene attraverso un tono particolare: quello della tristezza. Ciò ha a che vedere col potere della bellezza di generare commozione e lacrime. Tocca ora trovare la “nota-chiave” e Poe la individua nel consueto espediente del “ritornello”: trucco che è dotato di quell’universale efficacia ricercata dall’autore. I caratteri che l’autore ha voluto per esso sono la sonorità e la prolungata accentuazione. Ne Il Corvo, la “nota-chiave” è il famoso «Nevermore!» (= “Mai più!”) pronunciato dal lugubre uccello. L’animale (dice Poe) è il pretesto narrativo per la continua ripetizione del ritornello scelto. Pensò dapprima a un pappagallo, ma lo sostituì col nero rapace, per rimanere aderente al tono prefissato.
Delineata così la figura dell’uccello del malaugurio, occorreva l’argomento. A questo punto, non avrebbe potuto essere che la morte (triste e universale al punto giusto). È a tale proposito che Poe pronuncia la sua famosa sentenza:
“La morte quindi di una bella donna è indiscutibilmente l’argomento più poetico che vi sia al mondo.” (p. 236)
Ecco, dunque, che l’autore crea un amante in lutto, affinché interagisca con il Corvo. La surreale conversazione si fonda (afferma il poeta) si basa sulla “variazione d’applicazione”. Lo schema è quello “domanda (dell’amante) – risposta (del Corvo)”; ma le domande variano, mentre la risposta rimane “Nevermore”.
“E le porrà, tali domande, non certo perché creda alla natura profetica o demoniaca dell’uccello (che, come la ragione lo rassicura, non fa che ripetere una lezione meccanicamente appresa), ma perché prova un parossistico piacere nel formulare le sue domande in modo da ricevere dall’«atteso» Nevermore il dolore più delizioso proprio perché più insopportabile.” (p. 237)
Quale sarà il culmine di questo crescendo d’interrogazioni? Poe afferma che proprio da qui ha avuto inizio la sua poesia: dal massimo di disperazione raggiunto dall’amante in lutto, al sapere che non potrà riabbracciare la donna nemmeno nell’Aldilà.
Altro problema da risolvere: il luogo d’incontro fra l’uomo e il Corvo. Una foresta? Una campagna? Poe preferì uno spazio più limitato, per lo stesso motivo per cui i quadri vengono incorniciati. Si tratta (ancora una volta) di concentrare l’attenzione del lettore. Ecco, dunque, l’idea della ricca stanza recante le memorie della defunta, e di quella finestra aperta da cui entra il rapace. L’ora notturna invita alle fantasticherie così come alla tristezza. Il busto di Pallade (su cui si appollaia il Corvo) è stato scelto da Poe per sottolineare le abitudini di studio dell’amante, per il contrasto cromatico con le penne dell’uccello e per la sonorità stessa della parola “Pallade”. L’aria fantastica e surreale con cui è presentato il Corvo è, naturalmente, voluta. Il sotterraneo e indefinito significato simbolico con cui il volatile è gradualmente caricato crea la suggestività che ha reso immortale la poesia.
Erica Gazzoldi