Un tabù in superamento
Le politiche sul fine vita sono argomenti sempre spinosi da affrontare. La morte è un vero e proprio tabù, un pensiero che cerchiamo di allontanare il più possibile durante la nostra esistenza. Pertanto, instaurare un dibattito sulla possibilità da parte di un individuo di terminare la propria vita, con l’aiuto delle istituzioni, ha sempre incontrato difficoltà. Tuttavia, negli ultimi venti anni abbiamo assistito a un’apertura su questo tema da parte di moltissimi Paesi. L’Olanda fu il primo Paese a legalizzarla (2002), seguito poco dopo dal Belgio (2003). In generale, questi cambiamenti rappresentano vere e proprie conquiste per i diritti degli individui, liberi di determinare la propria vita dall’inizio alla fine. Ma non sempre è così. L’esempio canadese ha portato alla luce il rischio di un conflitto di interessi sull’eutanasia.
In Canada la legge sul fine vita (Medical Assistance in Dying, MAiD) ha storia recente. Risale al 2016 la legge del parlamento canadese che ha reso l’eutanasia legale in determinate condizioni. Si poteva ricorrere all’eutanasia nei seguenti casi: per coloro la cui «morte è prevedibile» (foreseeable death); per coloro le cui capacità cognitive o fisiche sono irrimediabilmente compromesse; oppure nei casi in cui una malattia provoca estremo dolore per il paziente.
Nel 2021 una revisione della legge ha ampliato in maniera considerevole la platea di coloro che possono richiedere l’eutanasia. La sola malattia cognitiva è ora sufficiente per fare domanda. Ovviamente, ciò ha portato a un aumento considerevole delle cifre. Se nel 2019 i casi sono stati 5.661, nel 2021 sono quasi raddoppiati, arrivando a 10.064. Un numero elevato, che spinge a porsi delle domande sulle cause di una simile impennata. Terminare la propria esistenza, infatti, non è una scelta facile da fare. Quando si offre questa possibilità è bene che chi se ne occupa si assicuri che il desiderio sia sincero e non nasca da altre problematiche che possono essere risolte in altri modi.
L’assenza di controlli
Una prima problematica riscontrata dagli studiosi è l’assenza di una supervisione. Spetta agli stessi medici completare il questionario che chiede se tutti i procedimenti sono stati rispettati. È quindi scontato che non si riscontrano mai errori nell’iter medico e burocratico. Tuttavia, studi indipendenti hanno evidenziato che, ad esempio, a molti pazienti non era fornito alcun accesso a cure palliative, essenziali in casi simili, malgrado in tutti i questionari si facesse riferimento all’ampia fornitura messa a disposizione del paziente.
Il caso di Alan Nichols mostra la necessità di una supervisione esterna. Alan soffriva di disabilità cognitiva e uditiva, ma viveva in maniera indipendente, anche se con episodi depressivi. Dopo alcuni controlli, fu ammesso in forma involontaria alle pratiche della Legge per la salute mentale (Mental Health Act). Diagnosticategli tendenze suicide, fu operata l’eutanasia 40 giorni dopo, sebbene ancora non fosse entrata in vigore la norma che estendeva tale pratica a chi non giaceva in condizioni critiche. Il motivo riportato sulla cartella medica era “perdita di udito”. Questo segnala anche una certa arbitrarietà insita nel concetto di “morte prevedibile” che deve essere assolutamente definita più chiaramente. Sono stati registrati altri casi simili. Il governo ha sempre rifiutato di indagare, e gli ospedali hanno respinto la richiesta di collaborazione con le indagini, scaricando la responsabilità sui familiari.
La presenza di supervisori esterni è dunque un primo requisito per garantire il rispetto di tutti i procedimenti. Non si può lasciare ai soggetti coinvolti tale responsabilità, in quanto consapevoli delle conseguenze in caso di mancato adempimento.
Quando morire costa meno
L’aspetto più inquietante emerso durante gli studi riguarda senza dubbio i reali motivi dietro le richieste dei pazienti. In primo luogo, va sottolineato che alcune volte sono gli stessi medici a proporre l’eutanasia, cosa che è assolutamente vietata negli altri Paesi dove l’operazione è legale, poiché può essere considerato come un incitamento. Inoltre, molti pazienti che richiedono la MAiD lo fanno perché esasperati dalla mancanza di politiche sociali adeguate per l’assistenza alla disabilità o condizioni critiche, che gravano dal punto di vista economico e psicologico sui pazienti.
A ciò si aggiunge anche l’insufficienza di strutture di ricovero o altri supporti a beneficio degli individui più fragili. Tutto ciò esaspera i soggetti vulnerabili. Si sentono come un vero e proprio fardello a carico dei familiari e della società, al punto da ritenere la propria vita come non degna di essere vissuta, ricorrendo all’eutanasia. Come il caso di Sophia, una cinquantenne che prima di morire con l’eutanasia ammise che la colpa della sua scelta era da imputare al sistema, più che alla malattia, dichiarando: «lo stato mi vede come spazzatura sacrificabile». L’ex ministra per l’inclusione dei disabili Carla Qualtrough aveva infatti confermato questa sensazione in un’intervista, in cui ammise: «in alcune parti del Paese è più facile avere accesso alla MAiD che a una sedia a rotelle».
D’altronde, molte di queste persone devono anche fronteggiare costi non indifferenti per provvedere ai propri bisogni, e la MAiD diviene quasi una scelta obbligata per chi non è in grado di coprire autonomamente le spese.
Il conflitto di interessi sull’eutanasia
Così si delinea un nuovo asse discriminatorio per i ceti meno abbienti. La malattia è percepita come una colpa, e la possibilità di “espiarla” alleggerisce lo stato da tutti gli obblighi che gli spetterebbero nel garantire pari opportunità ai propri cittadini. Solo nel 2020, si stima che le pratiche di morte assistita abbiano risparmiato circa 100 milioni di dollari per le cure mediche allo stato canadese. È sempre più evidente un conflitto di interessi sull’eutanasia tra il governo e i pazienti. Perché investire sulle politiche sociali, se quando qualcuno è scontento della propria vita può scegliere la via più breve? In un articolo recente, il National Post ha rivelato che un terzo della popolazione è favorevole a estendere l’accesso alla MAiD anche ai senzatetto o ai più poveri.
Da garanzia di autonomia sulla propria vita, l’eutanasia diviene una seria – e celata – minaccia al diritto all’esistenza. Affinché l’introduzione di una pratica simile risulti efficace per l’autodeterminazione, c’è bisogno che sia accompagnata da politiche sociali che ne garantiscano il corretto funzionamento. Oltre che una morte dignitosa, si deve pensare ad assicurare agli individui la possibilità di crearsi una vita dignitosa, nel rispetto delle proprie capacità e ambizioni, a prescindere dal proprio status sociale o economico.
Chiarimenti linguistici, come una definizione accurata di “morte prevedibile”; politiche di assistenza medica adeguate; la supervisione dell’iter del fine vita da parte di soggetti esterni, sono misure essenziali per evitare il formarsi di un conflitto di interessi sull’eutanasia, che ne mini il principio libertario.