Gli indigeni, l’assoggettamento e il progetto danese
Quando si parla di popolazioni indigene, la prima cosa che ci viene in mente è la sofferenza perpetrata ai loro danni dalla colonizzazione. Sono molte le forme di violenza. Alcune volte è stata esplicita, come in Nord America, mentre altre volte più subdola, come in Europa, dove ha avuto luogo il colonialismo silenzioso della Danimarca.
Infatti, pensando ai popoli indigeni ci vengono in mente subito i Paesi del Sudamerica, con le sconfinate foreste abitate da una pluralità di comunità diverse, il Nord America, o addirittura l’Oceania, con i Maori. Tuttavia, anche alcuni territori europei sono abitati da nuclei di popolazioni autoctone che hanno cercato di preservare la loro identità culturale. La maggior parte di questi si concentra nelle zone artiche. Un esempio molto importante è quello delle tribù Inuit che abitano nella Groenlandia, territorio autonomo appartenente alla Danimarca. Nel 1951 il Paese europeo avviò un progetto per «portare la civilizzazione agli Inuit». L’ambizione era quella di creare una classe dirigente indigena di formazione europea, con lingua e tradizioni danesi.
Dall’assimilazione al controllo
Come primo passo verso questo “progresso”, il governo procedette a prelevare dei bambini dalle famiglie e a sistemarli nel proprio territorio. Non è chiaro se ci fosse il pieno consenso da parte dei genitori. Ad ogni modo, la comunità Inuit aveva intenzione di adottare “l’efficienza danese”, vista come una soluzione ai cambiamenti economici e ambientali che minacciavano la società. Infatti l’economia – che è tuttora gestita dal governo del Paese Europeo – aveva dovuto adattarsi alle logiche capitaliste, e la trasformazione di molti territori aveva ridotto la quantità di risorse a disposizione per la caccia e le altre attività di sostentamento Inuit. Pertanto, non ci furono forti opposizioni.
Nonostante ciò, il progetto non andò a buon fine: non si riuscì a creare la tanto desiderata “élite indigena”, e i giovani persero la loro identità culturale. Nessuno riuscì a reintegrarsi nella famiglia d’origine, e si scelse di affidarli ad orfanotrofi o famiglie danesi. Dal ’60 in poi il progetto prese vigore e divenne obbligatorio spedire i bambini per qualche anno in Danimarca. Va sottolineato che alcune testimonianze dirette da parte di chi prese parte al progetto riportano un certo consenso (per i motivi già citati). Inoltre, non furono protagonisti di discriminazione e violenze (esplicite), al contrario di quanto accaduto in Canada all’incirca nello stesso periodo.
Malgrado le intenzioni più o meno comuni, l’unico esito fu una lesione del tessuto sociale Inuit. I bambini dimenticavano le loro tradizioni, lingua e religione. Tornati a casa, conversare con i propri familiari era difficoltoso. Quella che si veniva a creare era una vera e propria barriera culturale. Le opportunità di lavoro rimasero inesistenti, ma si creò la questione di ricucire uno strappo generazionale identitario. In più, il governo danese non abbandonò le sue intenzioni.
La questione indigena andava risolta
Se l’assimilazione “pacifica” non aveva funzionato, avrebbe trovato un altro modo per conseguire l’omogeneità della popolazione. In realtà, questa sorta di “piano B” non era mai stato un’opzione di riserva. Fin dall’inizio i medici avevano iniziato a praticare in segreto delle operazioni di sterilizzazione forzata sulle bambine o donne indigene. Il racconto di Naja Lyberth – un’attivista che sta dando voce alle vittime di queste politiche di controllo forzato della natalità – ha spinto a un’indagine e ha rivelato che tra il 1966 e il 1970 furono impiantate più di 4000 spirali intrauterine.
Oltre a essere un’operazione invasiva che causa dolore, in molti casi i dispositivi inseriti risultavano essere più grandi rispetto al corpo delle giovani ragazze, e questo causava infezioni e ulteriori problemi, che potevano portare all’asporto dell’utero. La procedura andò avanti fino alla metà degli anni ’70, ma si registrano casi fino al 2014.
Solo un incidente?
Sono molte le voci che hanno portato l’attenzione dei media sul progetto di colonialismo silenzioso della Danimarca e sulle sofferenze inferte agli Inuit. Ancora oggi queste ferite sono aperte e faticano a essere rimarginate. Nonostante l’autonomia di cui gode la Groenlandia, il progetto della sua indipendenza naufragò proprio a causa di una mancanza di coesione sociale (la percentuale di indigeni costituisce circa il 90% della popolazione). Ciò si ripercuote anche sull’economia della regione, che fatica a riprendersi.
A lungo il governo danese ha impedito che si facesse luce sulla faccenda e ha ignorato le richieste di risarcimento da parte delle donne Inuit. Solo nel 2019, con la premier Mette Frederiksen c’è stata un’apertura a riguardo, a patto che l’indagine si limitasse al periodo a cavallo delle due guerre mondiali. Questa non può essere una soluzione accettabile, poiché la retorica che si cela è quella di un governo che vuole ridurre il colonialismo silenzioso della Danimarca a un semplice incidente di percorso, lontano dall’immagine odierna del Paese.
Ridimensionare la politica etnica danese a quei pochi decenni significa suffragare l’idea che il colonialismo sia finito, un fenomeno ideologico comune che si è esaurito in concomitanza con l’ideologia fascista europea. Eppure non è così, e per provarlo basta volgere lo sguardo alla situazione attuale delle minoranze indigene. Spesso posti al di fuori o ai margini della società, ovunque devono battersi per il riconoscimento dei loro diritti, mentre vedono le loro terre ridursi sempre di più e la loro identità minacciata. Dove un tempo pascolavano il bestiame o praticavano la caccia, ora sorge un supermercato o un negozio di souvenir. Così devono adeguarsi, mutando le loro usanze e abbandonando le loro credenze.
Il colonialismo silenzioso della Danimarca non è mai terminato
Riconoscerlo, comporta smascherare il vero volto della cultura occidentale.
Alla violenza esplicita delle leggi razziali, che si basavano sull’espulsione dalla sfera di diritto, si è sostituita quella segreta, a volte chiamata “soft”, che opera attraverso l’esclusione. Il modello a cui ci si deve omologare non serve più a definire chi è “fuori”, ma chi è “dentro” alla società. Il risultato è lo stesso: l’omologazione che discrimina le minoranze.
Il colonialismo non è mai finito, ha solo cambiato faccia. Riconoscerlo oggi ha un’importanza decisiva per denunciarlo e agire affinché muti l’orizzonte verso cui costruiamo il domani.