L’ultimo film di Ken Loach conferma che i grandi artisti sanno leggere i propri tempi meglio e prima di tutti gli altri.
I, Daniel Blake riesce, nell’arco di un’ora e mezza, a raccontarci una microstoria che illumina tutta la storia che stiamo vivendo – e prefigura forse il prossimo futuro.
Lo spunto è semplice: un carpentiere inglese, non lontano dalla pensione, già vedovo, deve lasciare l’amato lavoro per una cardiopatia.
Ma il vero male non è quello al miocardio, è quello che abita nel cuore delle persone – soprattutto quelle persone che non sanno fare nulla e non amano il lavoro.
L’antefatto – che è presentato mediante il semplice sonoro, mentre su fondo scuro sfilano i titoli di testa – spiega tutto questo.
Daniel deve sostenere un colloquio per confermare il suo diritto all’indennità di malattia : poiché non è sufficiente che presenti il parere del suo medico.
La persona che deve giudicare del suo destino, non ci è mostrata – e non ci è indicata neanche la sua professione, poiché ella non è un medico o un’infermiera ma si dichiara enigmaticamente “una professionista della sanità”.
Per l’appunto, ne conosciamo solo la voce – dal timbro freddo, e dal tono altero e neghittoso.
E’ un buco nero, è il Nulla – il nulla, il non-saper-far-nulla che produce solo invidia verso chi invece sa fare un lavoro e che si richiuderà, lentamente ma inesorabilmente, sopra Daniel.
Per motivi imperscrutabili, come in una tragedia greca (ma probabilmente per punire il sarcasmo con cui Daniel risponde alle sue domande provocatoriamente sciocche) a Daniel la suddetta professionista, l’oracolo inesorabile, nega i requisiti per l’indennità.
Ma il dottore proibisce a Daniel di tornare al lavoro. Che fare?
Qui come nei film dei fratelli Dardenne alla meschinità delle figure piccolo borghesi si contrappongono dei personaggi di buon cuore, di solito più umili di condizione che i diversi meschini oppressori – gli altri che Daniel incontra nel suo itinerario doloroso.
Ma la luce non illumina la vicenda, perché può rischiararla solo a tratti, quasi di sguincio – come attraverso quella finestra della bambina amica di Daniel, finestra che egli da buon nonno e artigiano adorna con una giostrina di legno.
Daniel infatti aiuta, ed è ricambiato, sia una ragazza madre e suoi figli che un ragazzo di colore precario e trafficone, che ha imparato a ricambiare i capitalisti globali con la propria stessa, truffaldina moneta.
Cioè vendere la merce ad un prezzo diverso da quella del lavoro che l’ha prodotta.
La solidarietà fra proletari però non basta a spuntarla, come invece in altri film più ottimistici.
Nessun Eric Cantona verrà, da Non-Superuomo, a salvare il nostro piccolo, grande uomo.
Come hanno spiegato a Daniel “ te la faranno la più umiliante possibile” nel corso di presentazione della pratica : avere una malattia, è una colpa.
Ma forse ciò che suggerisce Loach è che : saper fare un lavoro vero, è una colpa ancor più grande.
Non essere inadatti al grande ingranaggio del capitalismo, è male.
Ma in realtà era un male del passato, ci dice Loach. Lo sfruttamento dei lavoratori: è roba vecchia.
Proprio poter rivendicare di saper fare, di poter essere davvero utile alle persone : quella è la colpa più grande.
Saper lavorare : quello è il peccato, non originale, ma finale della storia dell’uomo occidentale.
Da John Ludd che distruggeva le macchine siamo passati, senza accorgercene quasi, alla macchina che uccide l’uomo : alla civiltà occidentale che si autoconsuma.
Infatti, la voce femminile ma tesa e aspra che impone le proprie assurde, incongrue domande a Daniel, nell’antefatto che dicevo, potrebbe essere quella di un computer, di un Hal 9000 : di un Hal 9000 che finalmente abbia preso il controllo dell’astronave.
Un ribaltamento completo della metafora nicciana di 2001: non la macchina si è fatta umana, e l’uomo un dio – ma l’umano si è fatto robot.
La voce che con logica consequenziale e paradossale chiede a Daniel, malato di cuore, se sa gestire il proprio intestino, è la voce di una umanità trasformata in macchina – in maniera meno cruenta, ma analoga a quella delle SS dell’ultima guerra.
Le domande che perlustrano minuziosamente la condizione di salute di Daniel lo spogliano lentamente della sua dignità, soprattutto perché non rendono conto in nessun modo della propria legittimità : mai un film è stato tanto kafkiano, come questo film su un lavoratore che domanda invano la propria meritata social security (Kafka era un funzionario assicurativo diligente e ambizioso).
La burocrazia è il cliché che funziona ancora : il potere senza soggettività (e senza soggettiva, come ho detto) quindi lo strumento senza un cervello, kafkiano e oppressivo, che stritola nelle sue morse d’idra il protagonista, armato solo della propria povera, dignitosa logica di persona che sa fare il proprio mestiere.
Sa fabbricare librerie, giocattoli, mobili, riparare tutto : ma questo nel mondo d’oggi non serve.
Come non serve : provare empatia, compassione, solidarietà – e anche giudicare, e poi perdonare il tuo prossimo per le proprie debolezze.
Come dicevo, pochi ormai resistono : pochi continuano a mostrare simpatia e aiuto a Daniel, nel corso della propria vicenda, del proprio tortuoso tentativo di ricevere soddisfazione dalla burocrazia.
Colpisce che per Loach al protagonista non venga neanche in mente di chiedere aiuto a un sindacato.
L’unico aiuto è quello della Colletta per i Poveri : una ritorno alla situazione premoderna, in cui non si rivendicava un diritto, ma si implorava compassione.
L’amica di Daniel, la ragazza che per mantenere i figli rubacchia ed elemosina, riceverà sì aiuto da un uomo: ma l’aiuto di trasformarsi in prostituta, cioè in mero corpo, cioè in macchina da consumare.
Nel frattempo, per meritarsi l’indennità di disoccupazione, Daniel deve impiegare tempo ed energie per cercare lavoro – per poi trovarlo e, come in un paradossale incubo, essere costretto a rifiutarlo.
Meccanismo di un contrappasso infernale, di un kafkiano supplizio di Sìsifo che Daniel decide di rifiutare.
Ma nessun compromesso è possibile.
Quando Daniel, non trovando nessun ascolto, nessun canale per avviare la propria pratica di riesame per l’indennità, e ormai sull’orlo dell’inedia, finalmente deciderà di “dare scandalo” – sarà come Gesù nel tempio.
O come il contadino di fronte alla Porta della Legge – per rimanere all’autore praghese che continua a spiegare il mondo moderno meglio di chiunque altro.
Solo che Daniel qui non si rassegna, non è remissivo.
Non riuscendo a scrivere la sua dannata mail perché non usa il pc, o a farsi ricevere dall’impiegato addetto, Daniel userà una bomboletta spray per redigere la propria richiesta sul muro esterno del Castello – del kafkiano ufficio delle pratiche del lavoro.
“I, Daniel Blake” inizierà la sua lettera : e Loach sembra dirci che siamo al punto in cui un lavoratore deve persino impegnarsi a rivendicare la propria identità, la propria stessa esistenza.
Solo un vagabondo un po’ su di giri allora, un signor nessuno, gli mostrerà solidarietà, e un cappotto per coprirsi dal freddo – come se fosse Pinocchio a prestare il cappotto al suo Geppetto – mentre si solleva lo sconcerto dei passanti per l’atto inconsulto. Il vagabondo è anche l’unico a fare un accenno alle questioni di classe – chiamando in causa “quegli str*nzi fig*etti di Eton” per conto di Loach.
La gente per strada si limiterà a fare foto e selfie della “installazione”. Che è come sarcasticamente chiama Daniel la sua scritta sul muro (e qui Loach è magistrale per come con una sola parola, con una rapida pennellata, liquida tutto il sistema merceologico dell’arte contemporanea).
Mentre i selfie, sembra dire Loach, sono fantasmi che fotografano la propria invisibilità, invece della nuda realtà.
Un ribaltamento, vertiginoso per come è inserito in questa narrazione – il narcisismo è specchiarsi nella propria scomparsa.
Come in Pinocchio, in effetti, l’atmosfera del film sembra come quella che Carlo Levi trovava nella sua Lucania – un’epoca prima della storia, prima di Cristo, prima che il senso dell’individualità e della giustizia facessero la propria comparsa.
Quasi tutte le persone ritratte sono come prive di un senso di prospettiva e di consapevolezza– non si percepisce nessuna speranza, nessun pensiero.
Chi fa del bene lo fa solo per il proprio buon cuore, per un sentimento innato e a sua volta senza una ragione – l’ingiustizia è data per scontata. Gesù che diede scandalo, appunto, si doveva sentire meno solo di così.
Daniel dopo il suo gesto finirà al commissariato, per vandalismo, ma alla fine otterrà udienza dalla Commissione misteriosa – con tanto di valido avvocato a sostegno.
Ma non vedremo mai la Commissione – come Joseph K. non vede mai il suo giudice.
Però il reato di Daniel noi lo conosciamo, grazie a Loach : egli sa lavorare.
La pena è quella inevitabile : la morte, in uno squallido bagno degli squallidi uffici del palazzo delle pratiche, subito prima della fatale udienza.
Il funerale di Daniel all’alba, il funerale del povero, è il funerale dell’umanità e della democrazia : che è la speranza nell’umanità. Non sembra possa essere un’alba dell’avvenire.
Che dalla lotta di classe noi stiamo retrocedendo alla lotta pura e semplice per la nostra umanità, per i diritti umani – e proprio nell’epoca in cui come dice Enzo Traverso l’unico impegno politico considerato accettabile è quello di ispirazione astrattamente “umanitaria”, del buonismo cioè che non addita nessun responsabile del male – che la ruota della storia sia retrocessa sino al 1789, lo illustra bene in chiusura di pellicola la lettura delle parole di Daniel da parte della sua amica, di fronte alla bara del protagonista.
Erano le parole che egli avrebbe letto di fronte alla Commissione kafkiana, e che solo pochi amici ascoltano.
Parole in cui Daniel proclama di essere un lavoratore, non un parassita un lavativo o un peso per la società o un imbroglione : ma soprattutto, di essere un cittadino.
Aldilà di alcuni clichés e di un certo slancio verso il melo proletario, che peraltro non si vedeva da parecchio – e forse di qualche, espressionistica, forzatura – bisogna riconoscere, così come i giurati di Cannes, che la regia di Loach dimostra un effetto di verità formidabile.
Un macchina da presa lucida, uno stile severo, asciutto : che gremisce il racconto di tanti piccoli indizi, che indicano una vittima (l’umanità) ed un colpevole (la debolezza umana di fronte al potere e al denaro, quelle cose che tutti vogliamo avere: e l’unico modo per farlo è brandirle nei confronti del prossimo, come i meschini impiegati nei confronti di Daniel, pellegrino nei meandri dei loro uffici).
Il capitalismo finanziario ci ha spinti insomma a tornare all’alba dell’89 – al Terzo Stato che rivendicava semplicemente di “essere qualcosa”.
Quando il lavoro era la gogna, cui rifuggiva solo l’aristocrazia.
Poi il lavoro divenne il passaporto per la cittadinanza – per la sovranità popolare.
Miliardi, fantastiliardi, oggi flottano immateriali per il cyberspazio, e non si offrono alla nuotata sensuale e cordiale di nessun Paperone – il mondo presente, che svaluta il lavoro umano, è dominato dalla moneta elettronica, logaritmo d’un algoritmo, apriti sesamo in una lingua a-gnostica.
Cassirer sbagliava forse : le forme simboliche sono ancora troppo per noi: appena, appena, umani.
Nella società sentiamo di star diventando quasi un nulla – una variabile statistica, trascurabile come tante, fra miliardi di individui isolati, ed enne miliardi di dati aggregati.
Noi viviamo in una città globale, ormai, ma quanti sono coloro che sentono di essere a pieno titolo concittadini, e non meri sudditi di un sovrano senza volto – di una moneta che non si degna neanche più di portare impressa l’effigie del Re?
ALESSIO ESPOSITO