Il Cile di Salvador Allende giunse a una tragica conclusione l’11 settembre 1973, quando il presidente cileno, assediato dall’esercito guidato dal generale Augusto Pinochet nel suo ufficio al palazzo della Moneda a Santiago, si tolse la vita. Le sue ultime parole, pronunciate via radio, furono un toccante tributo alla sua dedizione alla causa della giustizia sociale e dell’uguaglianza. La sua morte segnò l’inizio di una dolorosa e oscura era per il Cile.
Nel cuore degli anni ’70, il Cile era un paese in fermento. Salvador Allende, eletto presidente nel 1970, aveva intrapreso un audace cammino verso la trasformazione sociale e economica del suo paese. La sua presidenza fu segnata da una serie di riforme ambiziose volte a ridistribuire il potere e la ricchezza, a migliorare le condizioni di vita della popolazione e a emancipare il Cile dalle catene delle multinazionali straniere. Tuttavia, questa audacia avrebbe dato vita a un tragico epilogo.
Allende si era proposto di riportare nelle mani del popolo cileno la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’industria del rame, che erano stati monopolizzati dalle grandi multinazionali statunitensi e da élite locali. Queste imprese erano diventate uno strumento di controllo sul paese, e Allende intendeva restituire il potere al popolo.
Una delle riforme più significative fu la riforma agraria, che mirava a togliere ai latifondisti le terre e a distribuirle ai piccoli contadini che avevano poco o niente. Questo permetteva a persone comuni di accedere a un pezzo di terra e di coltivarlo per il loro sostentamento, liberandoli dalla dipendenza dai grandi proprietari terrieri. Inoltre, Allende incentivò l’alfabetizzazione per combattere l’ignoranza e introdusse un salario minimo per migliorare le condizioni dei lavoratori. La sanità pubblica fu ampliata per garantire a tutti l’accesso alle cure mediche.
Tutto ciò faceva parte del progetto socialista di Allende, che mirava a creare un Cile più giusto e uguale, a ridistribuire la ricchezza e il potere dalle élite ai cittadini comuni. Tuttavia, questa visione avrebbe presto suscitato reazioni avverse, sia a livello nazionale che internazionale.
L’11 settembre 1973, il destino di Allende e del Cile prese una svolta tragica. L’esercito cileno, guidato dal generale Augusto Pinochet, assediò il palazzo presidenziale della Moneda a Santiago. Allende, in un atto di disperazione, si tolse la vita dopo aver pronunciato un commovente discorso via radio alle masse cilene. Le sue parole, “Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!“, rimangono un tributo alla sua dedizione alla causa della giustizia sociale.
La versione ufficiale parla di suicidio, ma alcune fonti suggeriscono che Allende potrebbe essere stato ucciso da Pinochet stesso. Quel giorno segnò l’inizio di una delle dittature più brutali del dopoguerra, con Pinochet che restituì il potere alle élite e oppressi il popolo.
Il Cile subì una dura repressione durante gli anni della dittatura di Pinochet, con violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari e torture. La lotta per la giustizia e la verità continuò anche dopo la fine della dittatura nel 1990.
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Nel 1998, il giudice spagnolo Baltasar Garzón emise un mandato di cattura internazionale contro Pinochet per la scomparsa di cittadini spagnoli durante la dittatura. Pinochet venne accusato di genocidio, terrorismo e tortura. Fu arrestato a Londra, ma non fu mai condannato. Morì d’infarto nel 2006, a 91 anni.
La storia di Salvador Allende e del Cile offre un importante insegnamento sulla lotta per la giustizia sociale e sulla fragilità delle democrazie in momenti di crisi. La sua visione di un Cile migliore e più equo vive ancora oggi nel cuore di coloro che continuano a immaginare un mondo diverso.