Di Francesca de Carolis
Una storia da ascoltare, in questo tempo d’avvento, come un “canto di Natale”. E che proprio da Betlemme arriva, con lo sguardo dolce di Hamdan, Hamdan Jewe’i, che ho conosciuto, giovane palestinese, quando, quasi nove anni fa, era arrivato in Italia per costruire, insieme all’associazione Moire, un ponte fra il nostro paese e la Palestina e cercare di fare qualcosa per le persone disabili della sua terra. Lui che, nato con una grave disabilità alle gambe, ha vissuto sulla sua pelle cosa significa essere emarginato, reso invisibile da paure e pregiudizi…
Ritorna, la sua storia, con la riedizione di un libretto che racconta il suo incredibile cammino iniziato nel campo profughi di Deisha, vicino Betlemme, e il grande coraggio che gli ha permesso spezzare catene di reclusioni. A cominciare da quella della sua disabilità, che, come per tanti come lui, si è sommata alla prigione dell’occupazione israeliana e tutte le sue violenze.
Il cammino di Hamdan, appunto.
Che parte dal ricordo della stanza nella quale è stato per tanti anni rinchiuso perché di un bambino disabile c’è solo da vergognarsi, soprattutto se si vive in un povero villaggio, in una famiglia che, racconta, “non aveva gli strumenti per capire come comportarsi con me, non erano abbastanza ‘civili’ per capire il concetto di integrazione sociale”. In un luogo dove è difficile trovare aiuto, strutture che aiutino, e aiutino a capire… E pensate quanti ragazzi nelle sue condizioni, ché a quelli nati con disabilità, si aggiunge il grande numero di quelli che “disabili” fa la violenza dell’occupazione.
Chiuso nella sua piccola stanza, Hamdan sognava “di uscire e studiare le stelle e di scoprirne i segreti, di sentirmi finalmente parte dell’universo, del respiro segreto della notte”. E quando i suoi non c’erano osava spingersi trascinandosi oltre la veranda della cucina, a scrutare la luce della luna, mentre grande era la sua lotta per superare la paura di essere riacciuffato e punito.
“Uscire, cioè varcare le porte del sé. Le porte del sé sono di pesante metallo lavorato, il duro metallo della paura di non essere amati, accettati desiderati. Le porte del sé sono pericolose da attraversare; ci si può perdere per sempre nella distorsione della propria immagine e rimanere intrappolati, avvinghiati a un sogno irrealizzabile o a un’angoscia insostenibile (…), dure come la selce le porte da varcare per diventare se stessi e cominciare a vivere”.
Rileggendo questo libro, che è una densa, pacata conversazione con Franca Dumano, che molto ha seguito e sostenuto il cammino di Hamdan, ritorna l’eco della sua voce, e ricordo che quando l’incontrai mi colpì il fatto che non c’era rimprovero nei suoi toni, mentre narrava la prigionia, la violenza che questa aveva fatto crescere in lui. Tanto che il giorno in cui la madre aprì la porta della stanza in cui era rinchiuso, l’aggredì e fuggì via… Ma nessun astio, nel suo racconto. Tanta tenerezza, piuttosto, nel ricordo dei giorni della sua mamma-bambina, sposa a quattordici anni, che dopo la fuga, riaccogliendolo e abbracciandolo, gli ha chiesto: “Aiutami Hamdan, aiutami a capire…”
Ed è allora che inizia la sua nuova vita. I suoi passi poggiati su stampelle, lenti, ma decisi e inarrestabili, lo portano attraverso ospedali e cure, e scoperte e nuovi amici, l’inizio dell’impegno per i diritti delle persone disabili, i viaggi, anche all’estero, anche in Italia, cui tanto da subito si è sentito legato. Nonostante la fatica e gli ostacoli che, potete immaginare, si sono moltiplicati con l’innalzamento della barriera di separazione, “il muro della vergogna”, che Israele ha iniziato a costruire nel 2002.
Attraversa, il cammino di Hamdan, la storia della Palestina. “I media riportano solo notizie di eventi drammatici, ma è giusto testimoniare la vita e gli sforzi delle persone comuni, i tentativi dei bambini di giocare con qualunque cosa e di cercare di sorridere”. Nonostante la situazione drammatica, la povertà, la carenza di cibo e di acqua potabile e tutte le malattie che ne derivano, nonostante gli incubi causati da gravi sindromi post traumatiche.
Molta strada ha fatto Hamdan, anche con l’aiuto degli amici incontrati nel suo cammino. Ora ha una sua “piccola famiglia”, come la chiama, e continua l’attività di “guida” nei campi, Aida, Deisha…, e nella città di Gerico, per testimoniare la condizione palestinese. Per testimoniare “soprattutto il bisogno di pace e normalità delle persone. Di costruire esistenze e non sopravvivenze”.
Una scelta fatta anche se per lui, con le sue gambe malformate e doloranti, camminare per ore su terreni scoscesi e strade sconnesse è davvero faticoso. Ma qualche anno fa un bel regalo, per la sua immensa voglia di vivere e comunicare, è stato lo scooter (modello assistito per disabili) comprato grazie alla raccolta fondi organizzata dai suoi amici.
E continua il cammino di Hamdan. Attraversa oggi il tempo della pandemia, che ancora costruisce reclusioni… ma siamo sicuri che mai si fermerà, convinto com’è della necessità del dialogo che sciolga, per tutti, catene…
Ho letto il suo racconto come un canto di Natale. Ripensando alle pagine di Roberto de Simone sul presepe napoletano, che nella tradizione più classica, si ricorda, è simbolo di un viaggio misterico. E’ la rappresentazione della discesa in un mondo dove, superata l’angoscia del buio, sarà possibile partecipare all’avvento della luce. Epifania alla quale tutti, ma proprio tutti, spezzando catene e abbattendo muri, sono chiamati a partecipare…