Il calcio africano è sempre stato oggetto di derisione da parte del mondo Occidentale che sorvola, però, sull’importanza del “fatto sociale”
Esiste un mondo che, lontano anni luce dai nostri canoni occidentali, è additato come terzo. Una landa sconfinata che parte dalle piramidi, attraversa il deserto e la savana e tracima digradando nelle acque tra Oceano Indiano e Oceano Atlantico.
Il calcio africano segue la linea di queste particolari e uniche conformazioni geografiche. L’ Africa è una terra di tramonti, di speranze vane e sogni irrealizzabili.
Il calcio è un tramite essenziale per la gente africana; uno strumento che permette di fuggire dall’incubo delle carestie e delle guerre e approdare in Occidente.
Ma il calcio, lo sport, come ogni fenomeno sociale non può sottrarsi alle condizioni avverse in cui è relegata una determinata realtà. Pertanto, il continente africano non gode della stessa fortuna dei paesi europei o di quelli anglosassoni.
La Coppa d’Africa, massima espressione della cultura sportiva del terzo mondo, rimane ancorata ad un tempo ignoto, carico di sconforto e arretratezza. Il calcio africano non può svincolarsi dalle difficoltà del territorio.
Al netto di errori tecnici individuali, sviste arbitrali clamorose e giocatori improponibili per un torneo continentale, bisogna sottolineare il “perché” questa manifestazione dimostri ogni quattro anni di arrivare da un altro pianeta. La situazione drammatica dei popoli africani si ripercuote dentro gli stadi: nel regolamento, nel rispetto dell’avversario, nell’assurdità di scelte tecnico-tattiche.
Eppure, riderci sopra, spalancare le porte al becerume del web, non è accettabile. Il portiere che liscia il pallone o l’arbitro che fischia la fine del match cinque minuti prima del novantesimo non è esilarante: è aberrante. Se analizzate con i dovuti strumenti volti a carpirne le dinamiche, le strutture culturali che sorreggono questi popoli non esistono e se il calcio è lo specchio di un paese, i calciatori riflettono un’immagine quotidiana desolante.
Quello dello scherno e del pubblico ludibrio sono atti che non rientrano solo nell’era social dove basta un “click” per passare due minuti di crescente e immatura spensieratezza. Possiamo, infatti, tornare indietro di circa cinquant’anni al mondiale del 1974. Lo Zaire (oggi Repubblica Popolare del Congo) negli anni ’70 è succube di una delle più feroci dittature centroafricane: il regime di Mobutu.
Nello stesso anno del mondiale ’74 tenutosi in Germania Ovest, lo Zaire vince la Coppa delle Nazioni Africane aggiudicandosi un posto nel succitato torneo calcistico internazionale. Il girone, composto da Brasile, Jugoslavia e Scozia, si dimostra sin da subito improponibile per il livello medio-basso degli zairiani.
Nella partita inaugurale contro la Scozia perdono 2 a 0, ma nella seconda gara del girone gli jugoslavi infliggono un pesantissimo 9 a 0 a suon di “Blavi! Blavi!” (“Azzurri! Azzurri!” in slavo) cantato dal pubblico sugli spalti. Prima della terza e ultima partita del girone con gli africani già condannati al ritorno in patria, Mobutu, a conoscenza dei risultati dei suoi, invia uomini del regime vestiti in giacca e cravatta a Francoforte nell’albergo in cui alloggiano i giocatori zairiani.
L’incontro tra gli adepti del dittatore e la squadra dura poco ma emerge un messaggio fondamentale: se i giocatori subiranno più di tre gol dal Brasile (un’ipotesi non surreale), saranno condannati a morte e le loro famiglie sottoposte alla stessa sorte. Pertanto, la squadra entra in campo con l’angoscia di non far più ritorno in patria: la morte è dietro l’angolo.
La partita inizia e al settantanovesimo il Brasile si trova sul 3 a 0. Negli ultimi dieci minuti di gioco, l’arbitro assegna un calcio di punizione al limite dell’area di rigore per i verde-oro. È il momento della resa, dell’atto finale che condannerà gli zairiani e i propri cari a morte certa. Sul pallone, infatti, si presenta Rivelino, forse il sinistro più potente e preciso al mondo in quegli anni.
Quando il Signor Rainea fischia, accade un qualcosa di inverosimile: Mwepu, difensore centrale, si stacca dalla barriera e corre verso il pallone prima che Rivelino inizi a coordinarsi per il tiro. Violazione del regolamento. Mwepu viene rimproverato da Rainea, ma sembra non ascoltare la reprimenda del direttore di gara e, anzi, discute animatamente con lo stesso. La punizione viene battuta di nuovo e (fortunatamente) il sinistro di Rivelino non centra la porta dello Zaire.
Finisce 3 a 0 e i giocatori africani sono “salvi”, ma solo temporaneamente. Al ritorno in patria, Mobutu dichiara la squadra “vergogna nazionale” e alcuni di loro sono costretti a lasciare il paese.
Perché Mwepu si staccò dalla barriera?
Istinto di sopravvivenza probabilmente. Il sinistro di Rivelino, agli occhi degli zairiani, era visto come una ghigliottina pronta ad essere armata per l’esecuzione. Lo stadio, sbigottito e assolutamente ignaro, rise dinanzi quel gesto disperato del difensore. Quell’attimo di pura impulsività rimase impresso nella storia del calcio e, sino ad un’intervista chiarificatrice di Mwepu nel 2002, rimase unicamente un’ironica rappresentazione dell’arretratezza calcistica-culturale dei popoli africani. Infatti, nello stesso mondiale, alcuni personaggi di spicco lamentarono quanto successo nella partita, definendo il calcio africano non pronto per la massima competizione internazionale.
A distanza di cinquanta anni, la situazione del continente e del calcio africano non è migliorata
In Camerun, in guerra civile per la questione anglofona, si sono disputate le partite del Girone F in un’atmosfera surreale: se dentro gli stadi regnava la festa, fuori la paura di autobombe ha sconfessato ogni desiderio di normalità. A rovinare ancor di più la manifestazione è stata anche la pandemia che in Africa, complici le condizioni economiche dei governi, non può essere affrontata a dovere. In tutto ciò, conclusasi ieri con la vittoria del Senegal sull’Egitto, la Coppa d’Africa ha testimoniato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la difficoltà di un continente succube di un ritardo cronico al quale l’Occidente volta le spalle senza ritegno.
Per questi motivi, ridere del calcio africano significa ridere del contesto africano. Come possiamo pensare che la bizzarria di arbitri, staff e giocatori non abbia un legame con il retroterra sociale in cui hanno vissuto? E chi siamo noi per deridere un fenomeno culturale tristemente sottosviluppato? Il calcio africano non fa ridere.
Lorenzo Tassi