Il business clientelare del Myanmar: I diritti umani entrano in bilancio

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La missione indipendente ONU in Myanmar ha rilasciato lunedì un rapporto che analizza la relazione tra i business clientelari del Myanmar e le violazioni dei diritti umani da parte del Tatmadaw.

Secondo il report, le forze militari sfruttano i proventi derivanti dagli accordi commerciali tra aziende locali e corporate straniere per finanziare “brutali operazioni” contro le minoranze etniche, instaurando un vero e proprio business clientelare in Myanmar.

Negli stati di Kachin, Shan e Rakhine la legge è quella del Tatmadaw, ovvero l’esercito  non soggetto ad alcun tipo di controllo da parte dell’ordine civile grazie a una articolo della  costituzione approvata nel 2008.

Omicidio, torture, scomparse improvvise e stupri sono solo alcuni dei metodi di controllo e intimidazione utilizzati dall’esercito, volti ad attuare una vere e propria repressione etnica.




La pulizia etnica condotta nel paese ai danni dei Rohingya ha portato recentemente gli Stati Uniti a vietare formalmente l’ingresso nel paese al capo dell’esercito e altri quattro generali.

Ma il fondamento del potere di questa dittatura militare non ha origine solo costituzionale, ma trova continua rinascita grazie al business clientelare in Myanmar, una serie di accordi commerciali e finanziamenti ad aziende locali, che dal 2015 costituiscono gran parte dei fondi dei militari.

Secondo la missione internazionale, dal 2016 il Tatmadaw è direttamente responsabile della deportazione forzata di più di 700’000 Rohingya in Bangladesh.

Nello stesso arco di tempo, circa 14 aziende straniere di sette nazioni diverse hanno intensificato i rapporti commerciali con l’esercito locale, contribuendo alla fornitura di missili, armi e veicoli da combattimento.

Marzuki Darusman, l’avvocato ed esperto di diritti umani a capo della missione, chiede che le aziende citate nel rapporto operino un repentino cambio di rotta, per erodere la base economica che sostiene le attività dell’esercito.

“Nessuna impresa attiva in Myanmar o che commercia o investe in attività nel paese dovrebbe entrare in contatto con le forze militari, in modo particolare con il Tatmadaw, fino a che le stesse non vengono ristrutturate e riorganizzate secondo le misure raccomandate nel report” afferma Darusman.

Due sono le aziende nominate nello specifico: la Myanmar Economic Holdings Limited (MEHL) e la Myanmar Economic Corporation (MEC), presiedute da alti capi dell’esercito, tra cui il Generale Min Aung Hlaing e il Generale Son Win.

I due generali, oltre a gestire gli accordi commerciali tra le forze armate, le aziende locali e quelle straniere, sono finiti nel mirino della missione ONU, che chiede che i due militari siano accusati di  genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

L’attività della MEHL e della MEC spazia in diversi settori, tra cui il controllo e la gestione di miniere di giada e rubini negli stati di Kachin e Shan. Nelle stesse aree, il Tatmadaw è accusato di violazione dei diritti umani, lavori forzati e violenze sessuali.

Ma sono molto altre le  aziende  che creano business clientelari in Myanmar e che di fatto avvallano le politiche aggressive e violente dell’esercito.

I guadagni  generati dagli accordi commerciali finanziano tutte le misure che l’esercito ritiene necessarie per eliminare presenza dei Rohingya dal paese, come ad esempio la costruzione di una barriera con il Bangladesh.

I numeri analizzati dal report sono destinati ad alzarsi: l’attività di altre 15 aziende è seguita attentamente, mentre sono almeno 44 le aziende con rapporti commerciali diretti o indiretti con le forze armate e i loro membri.

Il rapporto conclusivo verrà consegnato alle Nazioni Unite nel settembre 2019.

“Il cambio di rotta nel comportamento della aziende coinvolte potrà favorire la liberalizzazione e la crescita continua dell’economia del Myanmar, incluso il settore delle risorse naturali, in maniera tale da garantire equità, responsabilità e trasparenza per la sua popolazione”.

Chiara Nobis

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