Di Federico Feliziani
Quella che sarebbe dovuta essere una crisi pilotata si sta rivelando in realtà un passaggio al buio. Ad ogni ora che passa viene messo in discussione qualcosa di nuovo. Prima il merito, poi il metodo, e adesso quasi quasi anche il nome del Presidente del Consiglio.
Il susseguirsi dei fatti fa intravedere la strategia. Quella che sembrava non esistere rendendo incomprensibile la crisi di governo. È in realtà chiara sin dalla conferenza stampa con cui Matteo Renzi ha ritirato la delegazione di Italia Viva dal governo: fare fuori il Presidente del Consiglio.
In un primo momento però Giuseppe Conte sembrava aver mangiato la foglia iniziando un’operazione di resistenza che gli permettesse di rimanere saldo a Palazzo Chigi. È riuscito ad ottenere la fiducia in Senato, seppur risicata, ricavandosi così il tempo per lavorare a un soggetto parlamentare che sostituisse Italia Viva nella maggioranza. Era evidente come non ce l’avrebbe fatta ma, a quel punto, avrebbe potuto farsi scaricare pubblicamente.
Invece alla vigilia del voto sulla relazione del ministro della giustizia in Senato, sulla quale non avrebbe ottenuto la maggioranza, Conte sceglie di rassegnare le dimissioni convinto di aver tessuto buone relazioni in grado di riportarlo a Palazzo Chigi con il sostegno di una nuova alleanza.
C’è però un famoso detto: chi sale al Quirinale per dimettersi non ha nessuna garanzia di ricevere un reincarico. Sia perché le valutazioni del Presidente della Repubblica possono portare da tutt’altra parte, sia perché in politica nessun accordo può ritenersi solido.
Ed è proprio il caso di Giuseppe Conte che, solo dopo un paio di giorni dalle dimissioni, viene messo in discussione da alcune delle forze politiche su cui credeva di poter fare affidamento per formare un Conte ter.
Nella strategia politica per sbarazzarsi del Presidente del Consiglio, la dinamica delle dimissioni non è secondaria. Nessuno ha costretto alle dimissioni Giuseppe Conte e di conseguenza nessuno ne è esplicitamente responsabile. Conte avrebbe potuto affrontare la maggioranza in Parlamento. Ma non l’ha fatto.
Così, come vuole uno dei più classici schemi in politica, il tacchino si è infilato da solo nel forno non creando nessun “assassino”. E stando ai numeri, al momento, non ha salvatori all’orizzonte: Neanche il neonato gruppo Europeisti all’interno del quale sono confluiti senatori già computati nell’ultimo voto di fiducia.
Quello che sembrava un passaggio tecnico si sta dunque rivelando un intrigato schema politico dal quale potrebbe essere espulso proprio chi si riteneva al sicuro.