Chissà cosa avrebbe pensato Alessandro Manzoni se avesse visto il suo celebre romanzo trasmesso in televisione ed interpretato dal trio Solenghi, Lopez e Marchesini. Quel che è certo, è che seppur filtrato attraverso una lente tipicamente comica ed ironica, è innegabile che “I Promessi Sposi” rappresentino, ancora oggi, una colonna portante della storia della letteratura italiana. Primo esempio di romanzo storico, esso vide la pubblicazione definitiva tra il 1840 ed il 1842, in un contesto culturale in cui ancora si avvertivano gli echi dei contrasti tra classici e romantici. Circa venti furono gli anni che l’autore dedicò alla composizione di questa opera, la cui stesura iniziò nel 1821.
Manzoni scelse un unico grande protagonista per il suo romanzo: il diciassettesimo secolo. Una scelta dettata dall’esigenza di mostrare al pubblico la violenza della dominazione spagnola, l’inefficienza del sistema giudiziario allora vigente, la paura e la rassegnazione di chi era costretto a subire gli abusi da parte dei potenti. Ragion per cui dal “ramo del lago di Como”, lo sguardo dell’autore si estende sull’intero contesto lombardo, mostrandoci “luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvagità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operazioni diaboliche”. Ma a differenza degli storici del passato, l’autore non adotta il punto di vista dei vincitori. Al centro della scena pone i suoi eroi: persone umili, la cui esistenza deve fare i conti con le difficoltà del contesto politico e sociale circostante.
Già da queste poche righe, si comprenderà come risulterebbe riduttivo ritenere che l’opera manzoniana sia concentrata esclusivamente sulla storia d’amore tra Renzo e Lucia. In esso vi è molto di più. Pensiamo alla comicità di Don Abbondio e Perpetua, alla carità che traspare dalle figure di Fra Cristoforo e dal cardinale Federico Borromeo. Al lato oscuro della monaca di Monza, incapace di opporsi alla volontà paterna e di manifestare ciò che ella apertamente desidera. E ancora si pensi alla conversione del temibile innominato, ai suoi tormenti, alle sue indecisioni… La psicologia manzoniana raggiunge qui livelli di spiccata bravura.
Ma, oltre ciò, lo sfondo storico si alimenta di episodi terribilmente oscuri: la carestia, la guerra e la peste. La fame, la desolazione e la morte abbondano all’interno di queste pagine (basti pensare allo straziante capitolo in cui viene descritta la morte della piccola Cecilia). La natura umana si trova qui in balia di mali incapace di contrastare in seguito alla negligenza di un sistema politico che persegue solamente i propri interessi.
Tuttavia, Manzoni non lascia mai soli i suoi personaggi. Accanto a loro c’è la costante presenza di un Dio che “non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Ecco, dunque, giungere anche nei momenti più disperati un aiuto inatteso, manifestazione simbolica di un creatore che non dimentica mai i suoi figli. Poiché i guai “quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Quella manzoniana è così anche un’opera di speranza, un invito a scovare e seguire la luce anche nel buio più totale. Un romanzo emozionante ed unico nel suo genere, dietro cui si nasconde la mente di un uomo che pone la sua penna al servizio di una moltitudine di individui su cui molti altri predecessori avevano taciuto sino a quel momento. Molto altro ancora ci sarebbe da aggiungere su questo capolavoro italiano, ma ritengo che sia il caso di lasciare ai lettori la possibilità di scorgere le meraviglie della poetica manzoniana. E se la l’argomentazione qui trattata non vi dovesse avere incuriosito a sufficienza, usufruendo delle parole dell’autore: “vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta”.
Valentina D’Anna