Scritto da un giovane avvocato inglese, “I prigionieri dimenticati” è considerato ancora oggi la pietra miliare di tutte le attività di Amnesty International a favore dei Diritti Umani.
Un invito a un gesto semplice, quasi banale, “aprite un giornale”, smosse gli animi dei lettori del quotidiano inglese “The Observer”. Era il 28 maggio 1961 e Peter Benenson non poteva immaginare che le sue parole avrebbero dato vita al più grande movimento internazionale per la difesa dei Diritti Umani. Oggi, a distanza di 60 anni, i prigionieri dimenticati cambiano volto, ma purtroppo esistono ancora.
I loro nomi riempiono pagine di giornali e risuonano forti nelle voci degli attivisti durante le manifestazioni, mentre spesso chi dovrebbe e potrebbe agire si nasconde dietro imbarazzanti veli di omertà.
“Aprite il vostro giornale ogni giorno della settimana e troverete la notizia che da qualche parte del mondo qualcuno viene imprigionato, torturato o ucciso perché le sue opinioni o la sua religione sono inaccettabili per il governo.”
Peter Benenson scrisse quell’articolo poiché fortemente indignato di quanto accaduto in Portogallo che, all’epoca dei fatti, era sotto la dittatura di Salazar. In un ristorante di Lisbona, due giovani studenti furono arrestati con l’accusa di aver brindato alla libertà delle colonie portoghesi. Stanco dell’ennesima ingiusta violazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Peter rese quindi pubblica la sua rabbia. Un gesto impulsivo, grazie al quale in tutto il mondo nacque un incredibile sentimento di partecipazione, per organizzare la prima campagna internazionale in difesa dei diritti negati.
I prigionieri dimenticati, i prigionieri di coscienza
Contemporaneamente alla decisione di occuparsi “di coloro che erano stati arrestati o condannati unicamente per aver esercitato la loro libertà di opinione, credo o coscienza”, Amnesty International fondò anche la dicitura “prigionieri di coscienza”. Una perifrasi ampiamente utilizzata per indicare tutte le persone ingiustamente private della libertà, solo per aver esercitato un loro diritto senza servirsi della violenza. La storia ne ha conosciuti tanti, un’infinità di nomi dietro cui si nascondono vite e dolori di famiglie in cerca di giustizia.
Oggi, purtroppo, di prigionieri di coscienza ne conosciamo ancora tanti, che vivono ogni giorno sul delicato filo tra la vita e la morte. Da Nazanin Zaghari a Patrick Zaki e ancora a Navalny, una lotta disperata in cerca di giustizia e di libertà.
Peter Benenson
Nato nel 1921 a Londra, veniva da una famiglia ricca che lo fece studiare privatamente sino all’ingresso a Eton e, successivamente, all’università di Oxford, dove seguì il corso di Storia. Di indole irrequieta e incline alla critica delle ingiustizie, a soli sedici anni si cimentò nella prima campagna rivoluzionaria contro la scuola, per difendere gli orfani della guerra civile spagnola.
Credeva nel potere delle persone comuni di determinare cambiamenti.
Dopo la laurea entrò nell’Esercito Britannico come addetto all’ufficio stampa del ministero dell’Informazione e si avvicinò anche agli studi giuridici. Divenuto poi avvocato, fece il suo ingresso nel partito Laburista, diventando ben presto una figura di rilievo. Dagli anni Cinquanta cominciò a viaggiare molto per lavoro, manifestando sempre più il suo desiderio di sposare la causa che lo renderà celebre in tutto il mondo.
Benenson ha dedicato tutta la sua vita all’Associazione, con l’intenzione di salvare vite umane e rendere loro giustizia. Infatti, gli sono stati conferiti diversi premi, tra cui, nel 2001, il Mirror Pride of Britain Lifetime Achievment.
Amnesty International (AI)
Nata come un movimento attivista il 28 maggio 1961, è oggi un’organizzazione non governativa (ONG), che si mobilita per difendere i Diritti Umani sanciti nella Dichiarazione universale. L’ONG ha sedi in tutto il mondo e conta circa sette milioni di soci dispersi in 150 nazioni, tutti impegnati nella stessa difficile lotta, ma necessaria.
Nel 1977, AI si è guadagnata anche il prestigioso Nobel “per la pace difesa della dignità umana contro la tortura, la violenza e la degradazione”. Partita con l’obiettivo di dedicarsi esclusivamente ai prigionieri dimenticati, oggi Amnesty International è in prima linea su diversi fronti, quali:
- abolire la pena di morte;
- porre fine alla tortura e alla violenza contro le donne;
- contrastare impunità e discriminazione;
- garantire il diritto all’alloggio, alla salute e all’istruzione;
- riaffermare i diritti umani di migranti, richiedenti asilo e rifugiati.
Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.
Una candela nel filo spinato, un simbolo disarmante per la sua semplicità e immediatezza. Un’idea di Peter realizzata dall’artista Diana Redhouse per mettere in risalto le atrocità di un campo di prigionia, il filo spinato, e il potere della verità quando messa in luce, la candela accesa. Tuttavia, quest’ultima simboleggia anche la forza della speranza di salvare i prigionieri e rendere giustizia alle vittime.
Una battaglia continua
In sessanta anni di attività Amnesty International non si è mai arresa, continuando a testa alta la sua difficile battaglia per un diritto inviolabile che, quando negato, priva un uomo anche della sua dignità. Mezzo secolo di vittorie, ma anche di dolorose sconfitte, la cui memoria non è solo doverosa, ma imprescindibile. Costruire un futuro migliore, dove l’omertà non nasconda le atrocità di un passato spesso recente, è un atto dovuto, soprattutto nei confronti di chi non ce l’ha fatta a rivendicare un diritto.
I governi e l’opinione pubblica
Se le istituzioni pubbliche hanno il dovere di intervenire per garantire il rispetto dei Diritti Umani, anche il popolo, tutto, può fare la differenza. Infatti, diffondere la verità e informare correttamente sono armi potenti, di cui possiamo e dobbiamo servirci sempre. Ora più che mai.
La legge ti permette di punire legalmente un colpevole, ma non costruisce una cultura. Difatti, per difendere un diritto, bisognerebbe conoscerne le radici e la storia che ne ha permesso la conquista. Laddove non possono arrivare le carte, dovrebbe intervenire la coscienza comune, se non un profondo senso di responsabilità.
Questa candela non brucia per noi, ma per tutte quelle persone che non siamo riusciti a salvare dalla prigione, che sono state uccise, torturate, rapite, o sono scomparse.
Benenson ha dedicato la sua esistenza agli altri, diventando l’emblema di una vita intera spesa rincorrendo l’ideale di un mondo più giusto. La sua storia sembra quasi una favola incompiuta, che continua a essere scritta da tutti gli attivisti dell’associazione.
E se loro sono in prima linea, noi possiamo aiutarli diffondendo le verità, così da non diventare silenziosamente complici di atrocità. Perché morire per un diritto negato è forse tra le più grandi follie cui è arrivata la società umana. Contraddizioni.
Carolina Salomoni