La corte federale d’appello del secondo distretto di New York ha stabilito che Donald Trump non può bloccare i cittadini dissidenti su Twitter.
I tre giudici hanno deciso all’unanimità che nessun cittadino può essere escluso dai social del presidente, poiché quest’ultimo ne fa un uso istituzionale. Trump, anche se gestisce personalmente il suo account su una piattaforma privata, deve considerare che i suoi post hanno a che fare con la sua politica. Proibendo ad un americano di accedere al suo profilo e commentare le sue decisioni, violerebbe il Primo emendamento e quindi il sacro principio della libertà di espressione.
La sentenza mette di nuovo in risalto le difficoltà della democrazia rappresentativa nell’era dei social network.
Negli ultimi anni infatti ministri e presidenti attraverso Facebook e Twitter hanno permesso un avvicinamento tra elettore ed eletto. I cittadini possono commentare le scelte della loro classe politica e questa può orientarsi sulla base dei messaggi che riceve. Ovviamente questo meccanismo porta a confrontarsi anche con i dissidenti.
L’importanza crescente del web nel mondo politico rende evidente come sia necessario iniziare a tutelare la libera manifestazione di pensiero anche in quest’ambito. In America la sentenza su Trump era già stata anticipata dal caso Davinson contro Randall, ma negli USA come in Italia manca una precisa legislazione. L’art 21 della nostra Costituzione repubblicana sancisce che:
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Nel 1948, quando i costituenti scrissero questo testo, Facebook e Twitter non esistevano ma possono essere racchiusi nella locuzione “ogni altro mezzo di diffusione”. Di conseguenza anche in Italia sarebbe incostituzionale escludere un cittadino dalla partecipazione al dibattito politico sui social. Tuttavia silenziare i dissidenti è una pratica tanto diffusa quanto impunita.
Matteo Salvini ha fatto una lista di parole bandite dai suoi profili, facendo in modo che tra i commentatori ci fossero solo suoi sostenitori. L’obiettivo è di propinare se stesso ai suoi elettori come un leader incontrastato. Ma soprattutto la pagina social diventa lo spazio in cui la frustrazione di ogni elettore cresce a contatto con quella dell’altro.
Winston Churchill invece sosteneva la necessità per un governatore democratico di ascoltare anche la voce del dissenso, criticando i silenziatori diceva:
Alcune persone pensano che la libertà di parola sia dire tutto quello che vogliono, ma se qualcuno gli risponde, lo considerano oltraggio.
Solo attraverso il libero dialogo e la libera informazione la democrazia può evolversi.
Esiste però una linea non molto sottile tra libertà di manifestazione del pensiero e diffamazione. Facebook e Twitter si trovano in un mondo virtuale i cui utenti si sentono troppo spesso esenti da conseguenze.
La Costituzione garantisce che chiunque dovrebbe essere libero di esprimersi, quindi anche in modo critico, ma vanno precisati i confini di questo diritto. La magistratura italiana ne ha dato prova con la multa di 20mila euro al sindaco leghista che augurò lo stupro alla Boldrini tramite un post su Facebook. Allo stesso modo in America nessuno si è sognato di intervenire a favore degli account bloccati da Barack Obama, colpevoli di aver inondato il suo profilo con insulti razzisti.
Il diritto di consentire a tutti di esprimere un pensiero in alcuni casi si scontra con la necessità di punire le discriminazioni. L’aggressivo linguaggio social, che non gode del filtro imposto dal contatto fisico con l’interlocutore, rende questo limite molto evidente. Diversi casi italiani lo hanno testimoniato negli ultimi mesi, tra cui le minacce di stupro a Carola Rackete o gli insulti sessisti al magistrato che l’ha assolta.
Tutti i legislatori nazionali ad oggi si trovano di fronte alla necessità di porre dei limiti al web. Il tema più grande riguarda però l’aggiornamento della democrazia nell’epoca social.