Dall’ “ombra dei cipressi” e da “dentro l’urne”, arriva una preghiera, un’accorata richiesta di aiuto: non trasformateci in un Ponte. Abbiamo sopportato di tutto a cavallo tra il 31 ottobre e il 2 novembre. Abbiamo permesso che il nostro ricordo venisse sepolto, come lo sono da tempo i nostri corpi, surrogato da tante zucche vuote, come vuote sono le teste di chi ci gioca credendosi figo perché filoamericano e magari ci fa giocare i propri figli. Abbiamo permesso che lucrassero sui prezzi dei lumini e dei fiori, sulle messe di suffragio e sulle bollette per tenere accesi i lumini dei loculi nei cimiteri. Ma a tutto c’è un limite. Non trasformateci in dei Ponti.
Il 2 novembre, come i giorni di Natale e di Pasqua, come il 2 giugno e il 25 aprile, ridotti a dei “ponti”, a fortunate coincidenze temporali per concedersi gite fuori porta, lunghi weekend, il tutto preparato da offerte e promozioni “bombardate” sulle nostre mail almeno due mesi prima. Tutto regolare, tutto bello. Ci mancherebbe. Soprattutto in periodi di crisi in cui c’è l’urgenza di rilanciare i consumi. Ma, come l’occhio vuole la sua parte, anche le parole messe uno accanto all’altro dovrebbero mantenere un certo rispetto e un certo decoro: cosa ci si può aspettare da un Ponte denominato “dei morti”? Quale strategia commerciale può ridurre una celebrazione che unisce credenti e non nel ricordo di chi non c’è più, a una mera occasione di vacanza?
E il linguaggio, specie quello commerciale, è potente. Ha il potere di trasformare in realtà ciò che evoca. E questo crea mentalità, sentire comune. Se tutti parlano del 2 novembre come di un Ponte, il ricordo dei defunti cederà il passo a un tris di giorni di vacanze da passare in qualche metà gettonata. E questo non per fare moralismi o i bacchettoni. Ma per quel senso di rispetto verso chi riposa all’ombra dei cipressi, che già i nostri padri Greci coltivavano e tramandavano da una generazione all’altra. Rispetto non verso chi crede o verso una cerimonia religiosa, ma verso un giorno che coltiva il ricordo, ravviva la memoria come fatto personale e collettivo.
Lasciate almeno un po’ di decoro per chi non c’è più. Non fate business della memoria, non banalizzate il ricordo, non tanto per onorare una giornata in sé ma per conservare il senso di una comunità che non è completamente annichilita su se stessa, che non è schiave delle logiche dell’edonismo e del commercio, ma è capace ancora di “memorare“, di respiri che guardano all’eternità.
Il 2 novembre ci rimanda, senza nessun pessimismo, alla realtà della nostra vita che rimane un grande interrogativo per tutti. Negarlo, quindi negare il ricordo e la memoria, significa voler mettere da parte queste domande. Tutto sta nello scegliere, come dice Giovanni Papini, tra il teatro e il cimitero. Nei teatri – dice il poeta – l’uomo vede delle marionette, ciò che è prima della morte. Nei cimiteri quello che sarà dopo la vita.
Tra i due estremi c’è il presente, la possibilità di sottrarsi al gioco del mercato che tutto subordina alle proprie esigenze. Coltivare laicamente o religiosamente la “corrispondenza di amorosi sensi” con chi non c’è più, ci aiuta a stare con i piedi a terra, a lasciarsi spingere dal cuore e non dalla pancia. A considerare il valore drammatico e straordinario di una vita che vale molto più di un “ponte”, dell’evasione di qualche giorno fatta più per raccontarla che per viverla. La vita è altra cosa ed è cosa seria.