Il tema della rete d’accoglienza e di rimpatrio di cui l’Italia si è fornita negli ultimi due decenni è tornato di interesse dopo la notizia della morte di Vakhtang Enukidze. Nonostante il cambio di Ministro dell’Interno nulla del sistema di reclusione inumana, a cui destra e sinistra hanno in egual misura contribuito nel corso degli anni, sembra essere cambiato.
Vakhtang Enukidze era georgiano, aveva 37 anni, ed era detenuto nel CPR di Gradisca d’Isonzo in attesa del rimpatrio. Lo scorso sabato 18 gennaio è morto, mentre era sotto la tutela dello Stato italiano. Inizialmente le percosse trovate sul suo corpo sono state liquidate come “rissa tra migranti” . Eppure ora spuntano le prime accuse verso le forze dell’ordine. Ma mentre si inizia a parlare di un nuovo caso Cucchi vale la pena chiedersi perché i migranti muoiono nei CPR.
Che cos’è un CPR?
Saperlo non è scontato, anzi. Si parla piuttosto poco di queste strutture così come si parla poco delle carceri. Si tratta in ambo i casi di spazi in cui confiniamo i rifiuti della società con il preciso scopo di dimenticarne l’esistenza. Proprio per questo è estremamente facile che in queste voragini aperte sul nostro suolo democratico diritti e libertà civili fondamentali siano violate.
I CPR non sono imputabili ai Decreti Sicurezza di Salvini. I loro antenati sono i CPT (centri di permanenza temporanea) istituiti nel 1998 – durante il primo governo di Prodi – con la legge Turco Napolitano (lgg 40/98). Nei CPT dovevano essere rinchiusi tutti gli stranieri irregolari in Italia per un massimo di 30 giorni, successivamente si salì a 60 giorni con la legge Bossi-Fini del 2002 – durante il secondo governo Berlusconi.
Nel 2008 – quando Maroni era al ministero dell’Interno del IV governo Berlusconi -con il cosìddetto “Pacchetto Sicurezza” (lgg 125/2008) i CPT cambiano nome. Diventano CIE ossia Centri di identificazione ed espulsione in cui i migranti possono essere detenuti fino a 6 mesi, poi il termine massimo si allunga a 18, ed infine nel 2014 riscende a 90 giorni.
Nel 2017 la legge Minniti-Orlando – quindi parliamo del celebre governo Gentiloni riuscito nella riduzione sbarchi e nell’aumento rimpatri di cui Salvini ha poi tentato di accapparrarsi i meriti – istituisce i CPR. Si tratta dell’ennesimo aggiornamento dei CPT iniziali che erano poi diventati CIE.
I CPR sono Centri di permanenza per rimpatri, strutture che cioè ospitano per un certo termine di tempo i migranti da rispedire nei loro paesi di origine secondo la legge italiana. Attualmente sono in funzione solo in quatto regioni e il tempo massimo di detenzione è salito a 180 giorni con il Decreto Sicurezza del 2018.
Cosa succede davvero nei Cpr?
Spesso viene utilizzato un linguaggio completamente sbagliato per parlare di questi luoghi. Il primo termine da abolire è “ospite” per indicare il migrante che si trova in un Centro di permanenza per i rimpatri. I migranti muoiono nei Cpr perché sono dei lager, è successo a Vakhtang e succederà ancora.
Le cooperative che gestiscono queste strutture fanno un enorme buissness e nella maggior parte dei casi non si occupano neanche di garantire un ambiente vivibile, figuriamoci ospitale. Vakhtang non era “ospite in un Cpr” ma vi era detenuto a tutti gli effetti.
A Gradisca il Centro è stato inaugurato solo lo scorso 16 dicembre, provvisto di ben 200 videocamere di sorveglianza e 50 militari e altre 30 unità delle Forze dell’ordine. La struttura può ospitare un massimo di 150 migranti ma ad oggi alcune ale non sono ancora in funzione. Questo signfica che c’è praticamente un sorvegliante per ogni detenuto.
Immediatamente dopo i fatti del 18 gennaio a diffondere informazioni sulle brutali modalità di detenzione a cui sono sottoposti i migranti del CPR di Gradisca sono stati l’associazione “No CPR e no frontiere” e l’onorevole Riccardo Magi – deputato per Più Europa. In una video intervista pubblicata da Open Magi dichiara di aver parlato con i tre uomini di origine egiziana che hanno assistito al malore notturno di Vakhtang, successivamente morto in ospedale. I tre avrebbero raccontato di un’aggressione da parte di una decina di agenti e poco tempo dopo il loro confronto con l’onorevole sono stati rimpatriati, tuttavia la procura sembra abbia raccolto per tempo la testimonianza.
Il punto è il modo in cui lo Stato agisce sui corpi che si prende il legittimo diritto di detenere. I CPR sono spesso costruiti in aree perferiche, il più possibile fuori dagli occhi dei cittadini. Sono circondati da alte mura e sorveglianti, esattamente come le prigioni, e spesso le condizioni igienico-sanitarie sono fuori controllo. Non c’è la garanzia dell’ora d’aria o il diritto ad avere spazi di socialità, cose che dipendono dalla gentilezza dell’ente gestore.
Spesso infatti si registrano rivolte, tentativi di fuga e suicidi: tutti i giorni i migranti muoiono nei Cpr. Risalgono a poco fa le rivolte dei migranti detenuti in un CPR di Torino, ad esempio. 15 dicembre, 5 gennaio e 13 gennaio sono stati i giorni in cui la città piemontese ha visto il fumo innalzarsi dal centro di detenzione. I migranti hanno infatti bruciato i loro materassi, provocando tempestivamente l’intervento dei pompieri e ferendo lievemente 5 agenti di polizia.
I dati sui CPR
Gli ultimi dati del ministero dell’Interno sulla presenza dei migranti nel sistema di accoglienza sono aggiornati al 15 gennaio. In Italia tutto il sistema, che comprende oltre ai CPR anche i centri di primo soccorso, di accoglienza e per richiedenti asilo, ospita attualmente 66.212 migranti.
Secondo la più recente documentazione emessa dalla Camera dei Deputati – risalente a giugno 2019 – tutti i CPR italiani insieme sono in grado di ospitare un massimo di 1.035 migranti. Per avere una proporzione della rilevanza di queste strutture possiamo fare un rapporto che è tuttavia abbastanza impreciso, dato che i dati si riferiscono a periodi di tempo diversi e alcuni CPR potrebbero essere stati anche ampliati nella seconda metà del 2019. Sulla base di quest’approssimazione possiamo dire che solo l’1.56% dei migranti viene inserito in un CPR. Non tutti poi vengono rimpatriati. Secondo lo stesso rapporto della Camera nei primi 6 mesi del 2019 i rimpatri sono pari al 45% dei migranti detenuti. Secondo “No CPR no frontiere” in media il 50% è riportato nel suo paese d’origine.
Nei CPR si trovano coloro che hanno perso o che non hanno mai ottenuto il permesso di soggiorno, sottoposti a misure puntivie per il solo fatto di esistere. Eppure la politica sembra anni luce distante dal volerne discutere.